PRESSO VILLA TARANTINI E LARGO MONASTERO
V E D I in www.calderano.it:
Cerimonia Inaugurazione della Croce del 1781 in Largo Monastero -
RELAZIONE STORICA
Per la Croce di Largo Monastero
di Luca Luongo
Le croci poste davanti ai due monasteri di Maratea non furono costruite per un semplice scopo ornamentale. Avevano invece una funzione ben definita: delimitare le competenze del frate "sindaco" del monastero da quelle del parroco della città. Tutte le processioni, i riti al di fuori delle mura della chiesa e le benedizioni dovevano svolgersi esclusivamente all’interno del proprio ambito di competenza.
Alla base delle croci si trovano incisi due simboli. Da un lato, lo stemma della Città di Maratea — con le tre torri, l’aquila bicipite e le onde del mare — indicava l’inizio del territorio parrocchiale. Dall’altro, il simbolo del monastero, composto nel nostro caso da due braccia incrociate sormontate da un ramoscello d’ulivo, definiva l’area riservata ai frati.
È curioso notare come la delimitazione tra i territori dei monasteri e quello della parrocchia sia avvenuta ben prima di quella tra le due parrocchie cittadine. Solo nel 1819, infatti, i parroci Carmine Iannini, al Castello, e Giuseppe D’Alitti, nel Borgo, giunsero a un accordo per stabilire confini precisi tra le rispettive giurisdizioni. Per circa novant’anni, contrasti e ambiguità territoriali avevano alimentato tensioni, il più celebre dei quali fu l’episodio in cui, durante la festa di maggio, la statua di San Biagio venne velata di rosso nel passaggio da una parrocchia all’altra.
Probabilmente, la maggiore facilità nel definire i confini con i monasteri rispetto a quelli tra le parrocchie fu dovuta al minor potere contrattuale che le comunità monastiche potevano esercitare, specie nei confronti della parrocchia di Maratea inferiore.
Il monastero dei Minori Osservanti fu costruito a partire dal XVI secolo attorno alla chiesa di Santa Maria della Misericordia — nota a tutti noi come “chiesa del Rosario” — datata al 1575. Inizialmente destinato ai Domenicani, che però lo rifiutarono, il complesso fu assegnato successivamente ai Minori Osservanti.
Per quasi due secoli, i rapporti tra il monastero e la parrocchia si mantennero apparentemente sereni, o almeno non ci sono pervenute testimonianze di controversie significative. A partire dalla metà del XVIII secolo, tuttavia, la convivenza tra la città di Maratea, la parrocchia di Santa Maria Maggiore e il convento dei Minori Osservanti fu segnata da attriti ricorrenti di natura giuridica, amministrativa e religiosa. La documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Napoli evidenzia come la gestione delle risorse materiali, il controllo del territorio e l'influenza sulle pratiche religiose fossero oggetto di costanti negoziazioni, e talvolta di aperto conflitto.
Un episodio particolarmente rilevante si verificò nel 1775, quando l’Università di Maratea inferiore inoltrò istanze formali per la soppressione dei conventi dei Minori Osservanti e dei Paolotti. Le autorità civiche accusavano i religiosi di trattenere le rendite provenienti dai beni conventuali per fini privati, sottraendole al bene collettivo. Oltre al risentimento economico, emergeva anche una proposta concreta: utilizzare quelle stesse strutture per istituire due scuole comunali, da allocare nei conventi soppressi.
Nello stesso anno, si registrò una reazione contraria: parte della popolazione, compresi alcuni religiosi, si mobilitò per difendere i conventi, sottolineando il loro ruolo centrale nella vita spirituale, educativa e caritatevole della comunità. Il convento dei Minori Osservanti veniva descritto come un presidio indispensabile per il bene pubblico. Questo dualismo mostra la complessità del giudizio collettivo sul ruolo dei conventi: da un lato simboli di potere e concentrazione di ricchezze, dall’altro punti di riferimento identitari e sociali.
Il convento dei Minori, tuttavia, non si confrontava solo con l’autorità civile. Una lunga disputa lo vide contrapposto anche al convento dei Cappuccini, che lo accusava di esercitare attività di questua nella vicina Trecchina, violando un presunto diritto esclusivo.
In numerosi casi documentati tra il 1760 e il 1790, emergono inoltre frizioni tra la parrocchia di Santa Maria Maggiore e i conventi. Tali tensioni si manifestavano in forma di ricorsi e atti ufficiali riguardanti la nomina dei parroci, la gestione delle cappelle, il diritto di processione e l’amministrazione dei beni religiosi. Il convento dei Minori Osservanti, in particolare, si ritrovava frequentemente al centro di queste controversie, in competizione non solo con la parrocchia ma anche con le confraternite, soprattutto per l’autorità spirituale e la gestione delle offerte e rendite legate alla devozione popolare.
È in questo clima di rivalità e di equilibrio instabile tra le parti che fu eretta la croce del monastero. L’iscrizione emersa con chiarezza durante l’ultimo restauro riporta la data del 1781. Sopra i numeri si legge una sigla misteriosa: A. E. R. S. L’anonimo incisore ha così consegnato ai posteri un enigma. La formula non compare in altre epigrafi note; se non ci fosse la “E.”, si potrebbe pensare alla classica espressione latina “Anno Reparatae Salutis”, spesso usata al posto di “A.D.” per indicare gli anni dopo Cristo. SI potrebbe ipotizzare che l’incisore volesse scrivere “Anno aetatis Reparatae Salutis”, ma abbia commesso un errore morfologico, omettendo la “a” iniziale di “aetatis”. Un’ipotesi affascinante, ma decisamente improbabile.
Molto più chiara risulta invece la sigla sovrastante: “I. H. S. V.”, acronimo del celebre motto “In Hoc Signo Vinces”, che secondo la leggenda apparve a Costantino alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio. Il segno, naturalmente, era la Croce stessa: quella che l’imperatore avrebbe fatto incidere sugli scudi dei suoi soldati e che i costruttori del nostro monumento hanno scelto come elemento culminante.
Oggi, quella croce non è solo una testimonianza in pietra: è il simbolo di un’epoca in cui la religione, la politica e la vita quotidiana si intrecciavano profondamente. Ripristinarla nel suo contesto originario significa restituire voce a una memoria che non parla soltanto del passato, ma del modo in cui una comunità ha definito se stessa attraverso i suoi spazi, i suoi riti e i suoi segni.
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