Le motivazioni della decisione del giudice. Che smonta il Decreto Sicurezza
Carola Rackete, ecco perché il gip non ha convalidato l’arresto
Il capitano della Sea Watch Carola Rackete non ha commesso alcun
reato, bensì ha rispettato l’obbligo di legge di soccorrere persone in
pericolo, adempiendo ad un dovere di soccorso che «non si esaurisce
nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al
più volte citato porto sicuro».
La decisione del gip
Nelle 13 pagine con le quali il gip di Agrigento Antonella Vella
rigetta la richiesta di convalida dell’arresto e la richiesta di
applicazione della misura cautelare del divieto di dimora a carico
della 31enne tedesca c’è di tutto. Soprattutto il richiamo a norme
internazionali, che in nessun modo possono essere messe da parte dalle
norme del singolo Stato.
Smontato il decreto sicurezza bis
Inoltre la decostruzione del Decreto Sicurezza bis, che di fronte
alla prova dei fatti, di fronte al suo primo obiettivo polemico – le ong
– crolla, dimostrandosi non solo insufficiente, ma anche
inutile. Quella norma, che vuole i porti chiusi per le organizzazioni
non governative impegnate nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo,
non si può infatti applicare a chi salva vite. Vale per gli scafisti,
che quotidianamente approdano indisturbati, senza clamore mediatico,
sulle coste italiane. Così, mentre tutta l’attenzione del Viminale si
concentrava sulla Sea Watch, centinaia di migranti sono arrivati in
Italia. E coloro ai quali quel decreto poteva essere applicato non sono
stati nemmeno visti.
Il quadro di riferimento
Per il gip, i reati contestati alla capitana Carola Rackete non
possono essere esaminati senza analizzare anche ciò che è successo
prima, ovvero il soccorso in mare dei migranti e «gli obblighi che ne
scaturiscono». Il giudice richiama dunque la Costituzione, le
convenzioni internazionali, il diritto consuetudinario ed i principi
generali del diritto riconosciuti dalle Nazioni Unite, che pongono
obblighi specifici, non solo per i comandanti delle navi, ma anche per
gli Stati che hanno sottoscritto tali accordi, in relazione alle
operazioni di soccorso in mare. E gli accordi internazionali, ricorda il
giudice, hanno un carattere di «sovraordinazione» rispetto alla
disciplina interna. Insomma, non si può legiferare ignorando gli
obblighi internazionali.
Tra questi c’è la Convenzione Unclos, che impone al comandante di una
nave di assistere chiunque si trovi in pericolo in mare e di recarsi al
più presto in soccorso delle persone in difficoltà. Obblighi rafforzati
dal Codice della navigazione italiano, che punisce l’omissione di
soccorso, indipendentemente da quale bandiera batta la nave intervenuta.
L'ITER DEL SALVATAGGIO DEI MIGRANTI
Nel motivare la propria decisione, il giudice riporta passo passo
quanto accaduto il 29 giugno scorso. Il giorno in cui Carola Rackete
(difesa dagli avvocati Alessandro Gamberini e Leonardo Marino) finisce
ai domiciliari, dopo essere entrata di forza nel porto di Lampedusa. Con
la decisione infine di attraccare, urtando, nella manovra, una
motovedetta della Guardia di Finanza. Una condotta che aveva portato la
procura di Agrigento a contestare gli atti di resistenza con violenza a
nave da guerra – ovvero la motovedetta della Guardia di Finanza che
aveva intimato l’alt alla capitana – e il concorrente reato di
resistenza a pubblico ufficiale.
Le valutazioni di Patronaggio
Per il procuratore Luigi Patronaggio, quella della Rackete sarebbe
stata «una azzardata manovra» dopo essere stata ripetutamente intimata a
fermarsi. Una condotta valutata «come volontaria», così come la manovra
effettuata con i motori laterali, «che ha prodotto lo schiacciamento
della vedetta contro la banchina, fatto prodotto con coscienza e
volontà». E per il magistrato non c’era lo stato di necessità, dunque,
perché la nave era già attraccata alla fonda ed aveva ricevuto
assistenza tecnica.
Ma per il giudice le cose stanno diversamente.
Tutto inizia il 12 giugno, giorno del soccorso di 53 persone in zona
Sar libica, a 47 miglia nautiche dalla costa, dopo una segnalazione da
parte dell’aereo “Colibrì”. «Era un gommone in condizioni precarie –
spiega Rackete al gip durante l’udienza di convalida – e nessuno aveva
giubbotto di salvataggio, non avevano benzina per raggiungere alcun
posto, non avevano esperienza nautica, né avevano un equipaggio». Una
situazione che ha fatto sorgere, sottolinea il gip, «l’obbligo, per il
comandante della nave, di prestare soccorso alle persone trovate in mare
in condizioni di pericolo», come da Convenzione Unclos.
La comunicazione a 4 paesi
A questo punto Rackete comunica la presenza dell’imbarcazione in
difficoltà ai centri di coordinamento in mare di Libia, Olanda, «perché
la nave batte bandiera olandese e Italia e Malta, perché erano le più
vicine». È il centro di coordinamento a dover indicare il luogo con il
porto più sicuro. «Nel mio caso – sottolinea il capitano – verso
mezzanotte la guardia costiera libica ci ha detto di indirizzarci verso
Tripoli. A quel punto ho capito che non potevamo farlo, perché non
sicuro, perché lì vi erano stati, per altri casi di diverse violazioni
dei diritti umani. La Commissione europea ci dice che il porto di
Tripoli non è sicuro». E la decisione, sottolinea ancora il giudice,
«risultava conforme alle raccomandazioni del Commissario per i Diritti
umani del Consiglio d’Europa e a recenti pronunce giurisprudenziali».
Il porto sicuro
Malta viene dunque esclusa perché meta più lontana, mentre in Tunisia
«non ci sono porti sicuri», come riferito da Amnesty
International. Parlare di porto sicuro, spiega l’ordinanza del gip,
significa che «la sicurezza della vita dei naufraghi non è più in
pericolo, le necessità primarie (cibo, alloggio e cure mediche) sono
assicurate, può essere organizzato il trasferimento dei naufraghi verso
una destinazione finale». Condizioni non rispettate dalla Tunisia, anche
perché tale paese «non prevede una normativa a tutela dei rifugiati,
quanto al diritto di asilo politico».
Rackete decide dunque di avvicinarsi a Lampedusa, porto sicuro più
vicino, chiedendo invano alle autorità di poter entrare per lo
sbarco. Richieste reiterate con continue mail agli organi competenti,
nelle quali viene sottolineata la presenza «di casi medici urgenti» a
bordo, facendo anche ricorso al Tar e alla Cedu, senza successo.
Il peggioramento della situazione a bordo
Nel frattempo la condizione a bordo peggiora, la frustrazione cresce e
le condizioni di salute si fanno sempre più precarie. «La situazione
psicologica stava peggiorando ogni giorno – spiega al giudice – molte
persone soffrivano lo stress post traumatico, quindi quando abbiamo
detto che l’esito era negativo la pressione psicologica era diventata
intensa, perché non avevamo nessuna soluzione e le condizioni mediche
peggioravano. Abbiamo deciso di dichiarare lo stato di necessità e di
entrare nelle acque territoriali. Questo il 26 giugno. Quindi noi
abbiamo cercato per 14 giorni di non infrangere la legge».
Nel frattempo diversi migranti vengono evacuati dalla nave per
emergenze sanitarie, mentre la nave, per altri due giorni, rimane a
mollo nelle acque italiane, in attesa del permesso di attraccare. «Ho
aspettato – spiega il capitano – per una soluzione politica che mi era
stata promessa dalla Guardia di Finanza». Una soluzione che consiste in
un accordo tra i paesi Ue in merito all’accoglienza dei migranti, che
durante l’attesa non arriva. La soluzione continua solo a peggiorare.
«Diverse persone del mio team hanno espresso serie preoccupazioni,
uno dei medici ha detto che non avrebbe potuto prevedere più le reazioni
delle persone a bordo – spiega Rackete – diceva che ogni piccola cosa
avrebbe potuto far esplodere la situazione ed il coordinatore-ospite ha
detto che le persone stavano perdendo la fiducia nell’equipaggio».
Il superamento delle linee rosse
Il 28 giugno, alle 23 circa, dopo aver rilevato il superamento delle
linee rosse che un comitato ristretto dello stesso equipaggio si è
dato. Rackete decide di sollevare l’ancora e iniziare la manovra
d’ingresso nel porto di Lampedusa, comunicandolo subito alla Finanza e
portando avanti, nonostante l’alt imposto dalle Fiamme Gialle, le
manovre di attracco.
Una decisione, spiega il gip, supportata dall’articolo 18 della
Convenzione del mare, che «autorizza il passaggio» della nave battente
bandiera straniera «ma anche la fermata e l’ancoraggio» se tali eventi
sono necessari «a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in
pericolo». L’attracco, inoltre, è conforme all’obbligo di legge «di
prestare soccorso e prima assistenza allo straniero rintracciato in
occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o
estera ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di
salvataggio in mare».
Niente porti chiusi, nessuna violenza
Per il giudice, dunque, le direttive ministeriali dei “porti chiusi”
non possono avere «nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti
sul capitano della ea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali». Una
direttiva che, in ogni caso, prevede soltanto una sanzione
amministrativa.
Non può esserci, inoltre, resistenza o violenza contro una nave da
guerra, perché le motovedette della Finanza possono essere considerati
mezzi bellici «solo quando operano fuori dalle acque territoriali» o in
porti esteri privi di autorità consolare. Mentre per quanto riguarda la
resistenza a pubblico ufficiale, secondo quanto «emerge dal video» in
possesso della procura, «il fatto deve essere di molto ridimensionato,
nella sua portata offensiva, rispetto alla prospettazione accusatoria
fondata sulle rilevazioni della polizia giudiziaria».
«Ha agito solo per salvare vite»
La manovra pericolosa, «scelta volontaria seppure calcolata»,
permette di ritenere sussistente la resistenza. Ma tale reato «deve
ritenersi scriminato» in quanto Rackete ha agito «in adempimento di un
dovere». Il salvataggio in mare di naufraghi, spiega il gip, «deve,
infatti, coniderarsi adempimento degli obblighi derivanti dal complesso
quadro normativo» di convenzioni e diritto internazionale, oltre che
dalla Costituzione.
E il divieto previsto dal Decreto Sicurezza di ingresso, transito e
sosta può avvenire «solo in presenza di attività di carico o scarico di
persone in violazione delle leggi vigenti», ovvero se a farlo sono
scafisti e trafficanti, cosa che, aggiunge il gip, non riguarda la ong,
trattandosi di un salvataggio in mare in caso di rischio naufragio. Una
legge che, comunque, non può far venir meno gli obblighi di soccorso e
conduzione dei naufraghi in centri di assistenza.
Il segmento finale del comportamento di Rackete, dunque, ovvero la
resistenza a pubblico ufficiale, costituisce l’esito «dell’adempimento
del dovere di soccorso», il quale «non si esaurisce nella mera presa a
bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato
porto sicuro».
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