Da "Il Dubbio" del 9 aprile 2019 - Cronaca
Luigi Manconi
Valentina Moro
Caso Cucchi, il rammarico per il tempo perduto e il dolore per quella vita uccisa
Soddisfazione per la lettera del comandante Giovanni Nistri
Ad ascoltare la descrizione dettagliata e crudele delle violenze subite da Stefano Cucchi nella caserma Casilina, la notte del 15 ottobre del 2009, a opera di due carabinieri, tra le molte emozioni una risulta la più intollerabile, quella che porta a chiederci: ma tutto ciò non si poteva già leggere nelle foto del volto e del corpo del giovane scattate all’obitorio? Perché sono stati necessari quasi dieci anni e mille menzogne e altrettanti oltraggi prima che la verità esplodesse, nitidamente, nella testimonianza del vicebrigadiere Francesco Tedesco?
Mentre finalmente una così lunga battaglia giunge al suo passaggio
cruciale, è impossibile non rammaricarsi per tutto il tempo perduto e
per l’immenso scialo di sofferenza che ha seguito il dolore per
quella vita uccisa e che ha richiesto una tenacia senza pari e una
inesausta pazienza ai familiari di Stefano Cucchi e al loro
avvocato Fabio Anselmo. E così, anche la soddisfazione per il fatto che
il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni Nistri, in
una lettera alla famiglia, esprima il suo rammarico per il comportamento
di alcuni militari e si impegni a costituirsi parte civile contro di
loro, è attenuata dalla sensazione che ciò arrivi molto, forse troppo,
tardi. Già nel febbraio del 2017, con Ilaria Cucchi incontrammo l’allora
Comandante Generale Tullio Del Sette che definì estremamente grave
che alcuni carabinieri avessero potuto “perdere il controllo e picchiare
una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non
l’avessero poi riferito e che alcuni altri avessero potuto sapere senza
segnalarlo”.
Da allora sono passati altri ventisei mesi e questo periodo di tempo
non solo ha ancora differito l’accertamento della verità ma, temiamo, ha
puntellato la costruzione della menzogna intorno a quella notte del 15
ottobre 2009, sorreggendo ulteriormente un castello di manipolazioni,
deviazioni e deformazioni della verità. E ha ancora
prolungato quell’atteggiamento di omertà che ha consentito in questo e
in altre decine di non troppo dissimili casi Cucchi che lo spirito di
corpo prevalesse su tutto, rafforzando legami di complicità
all’interno dell’Arma, irrobustendo solidarietà di appartenenza e di
corporazione, esaltando forme aggressive di chiusura. A tutto ciò ha
contribuito l’inerzia di comandi dell’Arma, talvolta
addirittura conniventi e la codardia di gran parte della classe politica
nazionale. Quest’ultima rivela da sempre un vero e proprio complesso di
inferiorità nei confronti dell’Arma dei carabinieri, una sudditanza
psicologica che induce a ritenere come unico bene da perseguire l’unità –
comunque e a qualunque costo – del corpo militare, invece che la sua
democratizzazione che potrebbe comportare anche conflitti interni tra
diverse idee del ruolo dell’Arma e della sua identità.
In altre parole, piuttosto che favorire una evoluzione dei
carabinieri verso una fisionomia costituzionale, rispettosa dei
diritti e delle garanzie del cittadino, e al suo servizio, si opta
tutt’ora per la sua connotazione come strumento essenzialmente, se non
esclusivamente, di mera repressione. Questo, nonostante qualche segnale
positivo e qualche misura riformatrice, fa sì che la grande questione
della formazione degli appartenenti all’Arma resti trascurata e comunque
sottovalutata. La formazione culturale e, appunto, costituzionale, ma
anche quella operativa, strettamente collegata all’esigenza di tutelare
sempre e comunque l’integrità del cittadino, è tutt’ora un problema
irrisolto.
Un esempio solo. Nel gennaio del 2014, il Comando generale dell’Arma
aveva emanato una circolare a uso di tutti gli operatori in cui venivano
esplicitate le linee di intervento nei confronti di fermati in stato di
alterazione psicofisica «al fine di ridurre al minimo i rischi per
l’incolumità delle persone». Per esempio, si evidenziava come fosse
ritenuto importante scongiurare i «rischi derivanti da prolungate
colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in
posizione prona» e si specificava di evitare «in ogni caso posture che
comportino qualsiasi forma di compressione toracica», la quale «può
costituire causa di asfissia posturale». Appena qualche settimana dopo, a
Firenze, Riccardo Magherini moriva per strada sottoposto da parte di
tre carabinieri esattamente a quella presa che la circolare del comando
dell’Arma intendeva interdire. E, a quanto si sa, quella circolare è
stata poi ritirata. E allora è impossibile non chiedersi quanti altri
cittadini, italiani e non, in questi anni e nei prossimi, rischino di
finire vittime di “asfissia posturale”.
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