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SETTEMBRE 43: UNA SIEPE, UN CARRO ARMATO
di Lucio Tufano - 08 settembre 2021Lucio Tufano
Vi è un mondo che tutti riconoscono ed a cui si tende a ritornare con l’interesse del botanico o del biologo che ha ben osservato l’erbe e gli insetti da vicino, percependone le essenze, le sfaccettature, le tinte, le forme fantastiche, come Gulliver con gli occhi assorti all’altezza delle affiorate radici e degli steli.
Un microcosmo popoloso, non più accessibile agli adulti, da cui scaturiscono le nitide sensazioni che, divenute ricordi, costituiscono la grande risorsa, la catalogazione dei fatti, come accade dei velluti pigmentati di farfalle per un racconto da collezione, coordinato di immagini.
Le fitte siepi gremite di spini e di rattaculi facevano da confine alle schermaglie del sogno ed alla noia della scuola. Avevamo superato gli esami di quinta, con la nostra maestra, Gina Molinari, e avevamo assistito a tutti i film di guerra proiettati al Sala Roma o allo Stabile: Giarabùb, Bengasi, ecc. e Fosco Giacchetti, Alida Valli, Leonardo Cortese, Massimo Girotti, erano attori a noi noti, i divi di quegli anni. I film di Macario e Totò, con quelli come «Addio Chira» e «Noi vivi», ci avevano lasciato divertiti e pensosi. L’efficiente direttore Gallicchio ci aveva fatto assistere a diverse recite, rappresentate allo Stabile con Maria Apicella, Pompeo Altieri, Chichirichigno, ed altri scolari. Avevamo cantato in classe del colonnello che non voleva il pane, ma che preferiva il fuoco distruggitore, e le canzoni più in voga: «All’armi siam fascisti», «Per vincere ci vogliono i leoni», «Giovinezza» che era già un po’ fuori moda, logorata dalla carta annonaria e dalla attesa di tre duri anni di guerra. Avevamo parlato di posizioni occupate dai soldati italiani, subito perdute, mentre sulle copertine dei quaderni erano riportati gli Stukas germanici che abbattevano gli Spitfire britannici e le azioni vittoriose dei fanti italiani e tedeschi.
Avevamo anche vinto le gare ginniche delle scuole elementari, guidati dal nostro istruttore Saverio Coscia. I compagni di scuola erano Pesarini, Logiudice, Amati, Lacentra, Leone, capoclasse, che scriveva i buoni e i cattivi alla lavagna e che, autorizzato dalla maestra, gestiva una mazza, spesso brandendola sulle teste di tutti. La mazza era un’istituzione dell’insegnante per le spalmate sulle mani di chi non aveva imparato la lezione. La portavano gli stessi alunni dalla campagna, Pasquale Dolce ne portò una nuova e fu il primo a provarla. Vi erano gli altri: Tolve, Garofalo, Cerverizzo, Albano, Antonucci, Santoro, Miglionico, Trambarulo, Labriola, Ragone ed eravamo quelli della 5^ B, la classe più irrequieta della scuola «Rosa Maltoni» di via Roma.
Pesarini schizzava dai denti la saliva per una lunghezza di tre o anche quattro banchi. Amati e Villani ci facevano sganasciare dalle risate perché quando si leggeva ad alta voce, domandavano se le cose lette fossero vere o false.
Il pomeriggio da Orazio Gavioli si giocava alla guerra e la villa alberata aveva i muri rossi e i cespugli adatti per le nostre contese. Fra l’altro vi si trovavano i giocattoli, gli elmetti da fante, gli album de «Il Vittorioso» e le armi. Fuori, nel larghetto, le bande rionali di Ventura e di Musciarone si scontravano e la guerra si trasferiva nelle scarpate dell’Incis di via Napoli, con le trincee predisposte nel fogliame per battaglie tra spade di robinia e pistole di legno e per la cattura regolare di prigionieri legati e portati nel campo nemico.
L’oscuramento era obbligatorio e le poche automobili avevano i fari rivestiti. Nella palestra della Caserma dei Reali Carabinieri, si proiettavano i film che don Peppino Giugliano passava all’amministrazione militare per gli ufficiali della VII armata.
Anche dopo il 25 luglio 1943 ci fu l’ordine di arresto di Enzo Pignatari, di Mast Luigi Ardore, di Nestore Padovani di Mast’Austino Siani e di altri. Pare che l’arresto avvenisse per motivi precauzionali. Il gran Consiglio si era tenuto alle sedici del 24 luglio a Palazzo Venezia, alle ore 10.30 la radio annunciava con Arista l’avvenuto arresto di Mussolini (25 luglio).
La casa del Fascio fu presidiata da due compagnie di allievi ufficiali di Artiglieria.
Era federale Ernesto De Marzio che diede ordine di tenere sbarrato il portone.
I fascisti locali non accettarono per vere le notizie, anche se successivamente ne ricevettero conferma. La Pubblica Sicurezza intanto procedeva egualmente all’arresto, ormai consueto, dei più noti antifascisti, più che altro per averli sotto controllo.
Fu una sera di settembre, una di quelle sere in cui l’estate di Potenza indugia nei rioni, compagno di giochi dei ragazzi vocianti e i tepori della città vengono di tanto in tanto smossi dalle correnti d’aria che spirano dalla campagna circostante.
Al teatro Stabile si proiettava il film «La maschera di Ferro» con Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Gino Cervi, Roberto Villa, attori principali.
Un clamore di voci fece svuotare la sala, in piazza Prefettura la gente era impazzita dalla gioia, si abbracciava, stringeva mani, scambiava sorrisi. Era stata diffusa notizia dell’avvenuto armistizio. Si chiedevano notizie ai militari del 48° Fanteria che sostavano in piazza, sorpresi e contenti come tutti.
Davanti alla Croce Rossa di via Roma, si fermò una camionetta con quattro soldati tedeschi, uno dei quali ferito ad un dito. I tedeschi scesero dal mezzo per riparare una gomma, li guidava un sottoufficiale. Questi dopo che fu riparata la gomma, avendo attinto la notizia, offrì delle sigarette e con comportamento freddo e distaccato salutò militarmente montando sulla vettura. Nella piazza i camion tedeschi erano assiepati di soldati che attendevano gli ordini dal proprio comando, indignati da quell’euforia, per essi fuoriposto.
Ma verso le 21:30 si udirono le sirene d’allarme e i potentini, come al solito, si divisero in due gruppi, quelli che fruivano dei ricoveri e quelli che continuavano a prendere la cosa con leggerezza.
Oltre agli interrati dei palazzi che funsero da rifugi, quelli scavati nell’argilla, puntellati da tronchi di quercia e riparati da barriere di sacchetti di sabbia, erano in vari punti della città: sotto Santorufo o Palazzo del Convitto Manzoni con un’uscita adiacente alla gradinata; nel punto di via Vaccaro, dove oggi c’è il distributore della “Q8” e la bottiglieria di Giuzio; piazza Crispi sotto il vecchio Ospedale o Castello con accesso in via Raffaele Acerenza; nei due archi del Teatro Stabile, con sostegni di travi, tronchi e sacchetti di sabbia; sotto la villa del Prefetto in via Mazzini; da Ierace, per gli amici, costruito con due aperture dalla Ditta, nella cava per mattoni; allo Scalo Inferiore, il tunnel che andava dalla stazione all’Ufficio dei pacchi; e sotto la Palazzina di Procaccio, al bivio tra la via Mazzini e via Umberto.
Furono colpiti tutti gli obiettivi militari, evidentemente su segnalazione di confinati israeliti che da qualche anno risiedevano a Potenza, l’ex Ospedale a S. Luca, ove era situato il comando della 7^ armata, la Caserma “Lucana” Allievi Ufficiali di Artiglieria, il deposito del 48° e l’Ospedale S. Carlo a S. Maria dove perirono il primario prof. Ettore Lerro, 2 suore e molti ammalati, le scuole elementari di via Roma ove erano stati sistemati i servizi logistici della VII armata.
Le bombe, che nel deflagrare provocavano un forte spostamento d’aria, seminarono distruzione e mandarono in frantumi muri e vetri di Potenza, lesionando interi fabbricati e facendone crollare altri, tutti nelle adiacenze delle ubicazioni militari. Crollarono il Palazzo Padula, quello di don Luigi Murro, dove si trovava il bar di Enrico Brucoli, un edificio sulle scale Rossano e più giù su Via Vaccaro a fianco al Provveditorato ai Lavori Pubblici, alcune case al rione Addone, la colonia elioterapica di Verderuolo, il Villino di Ianfolla, ecc.
I tedeschi avvertirono gli inquilini delle case di S. Luca e che si erano rifugiati negli scantinati dell’Incis, che i mobili e la roba si potevano ancora salvare dalle fiamme che stavano prendendo corpo.
Lo spettacolo che si presentò agli occhi di chi, uscito dai ricoveri ove frettolosamente aveva dovuto trovare scampo, si accinse a ricongiungersi alla propria famiglia rimasta in casa o riparata in qualche altro posto, o aveva già raccolto frammenti di notizie dolorose per la morte dei parenti, o per la distruzione della propria abitazione, fu, a dir poco, apocalittico. Le strade erano disselciate, i cavalli sventrati giacevano inerti e gonfi, imbiancati da calcinacci, i pali della luce e del telegrafo erano stati divelti e scaraventati a centinaia di metri di distanza. Dappertutto vi erano masserizie disseminate tra le macerie, bottiglie di salsa, la salsa che i potentini, in quel prodigioso settembre, avevano fatto per antica abitudine, sedie e suppellettili volate via dalle finestre fracassate, automobili sventrate, garage e magazzini abbandonati e dalle saracinesche sconquassate, cornicioni rotti, tegole piombate sul suolo, terriccio e polvere. La gente appariva stravolta, alla ricerca disperata di notizie, di qualche spiegazione; le voci erano strazianti, i lamenti fievoli dei feriti provenivano da montagne di pietre e di macerie, da punti imprecisati. Nel corri corri generale si aveva l’impressione netta della catastrofe, la gente che si incontrava sgomenta e disperata era quella che si incontra dovunque succeda qualcosa di terribile, o dovunque si verifichi una sciagura improvvisa.
Nei giorni che seguirono, la città versò in condizioni gravissime: non vi era neppure chi si preoccupasse di organizzare lo stato di emergenza. Mancava l’acqua, per le condutture che erano state colpite. C’era la disperazione, la fame e la paura. Al di là del puzzo dei cadaveri che imputridivano, per il caldo, sotto le rovine, nessuno passava per le strade, tranne le lunghissime colonne corrazzate tedesche che transitavano in ritirata, alcune retroguardie separate dal grosso e in fuga, e le pattuglie dei guastatori. Le incursioni si succedettero ad ondate, più di notte che di giorno, infierendo per una buona decina di giorni. Le notti erano terribili, venivano rischiarate dai bengala che gli stessi aerei lanciavano dall’alto per ben scorgere gli obiettivi e poterli colpire. Nell’atrio del Teatro Stabile si distribuì per due giorni di seguito tutta la pasta che si era riusciti a requisire dal prefetto e su iniziativa della associazione dei commercianti, svuotando qualche vagone ferroviario in sosta allo Scalo Inferiore. Proprio don Peppino gnè gnè ex cameriere napoletano, si era adoperato con un traino a trasportare la pasta dallo Scalo al posto in cui veniva venduta alla cittadinanza, con l’aiuto solerte di Nino Mastrangelo, cui era stato affidato l’incarico.
I tedeschi di stanza a Potenza rimasero in pochi e tennero un comportamento complesso e strano. Alcuni ufficiali visitarono i ricoveri distribuendo cioccolata ai bambini (come accadde nel ricovero di via Mazzini, a fianco della Villa del Prefetto, dove le madri e i parenti fecero buttare tutta la cioccolata che i ragazzi avevano ottenuta, temendo che fosse avvelenata) e praticando cure ed iniezioni con l’intervento di un ufficiale medico, ad un ragazzo affetto da tifo e paratifo, che si trovava nel ricovero del Palazzo Manzoni, sotto Santorufo. Altri invece, si diedero anche al saccheggio avendo ricevuto l’ordine di reperire materiale e benzina ed avvalendosi di collaborazionisti potentini.
Furono danneggiati diversi cittadini proprietari di garage, la Fiat che aveva gli autoveicoli rinchiusi nelle autorimesse e l’autoparco della Milizia della Strada in via Napoli. Furono asportati pezzi meccanici, gomme, perfino gli autobus del servizio urbano e di linea. Furono svaligiati diversi negozi, opera alla quale parteciparono anche gruppi di saccheggiatori locali, e qualche caffè di via Pretoria, il deposito di Dragone presso S. Gerardo, i magazzini di corso XVIII Agosto del consorzio agrario e di corso Garibaldi, di fronte all’allora Provveditorato agli Studi. La popolazione, almeno la parte che ne fu informata, si affrettò a trafugare qualche indumento, scarpe e roba commestibile, afferrando tutto ciò che poteva essere facilmente portato via.
I giorni si susseguirono lenti, fra gli incubi e nel dramma. L’unico pane che si riusciva ad ottenere era quello nero, lavorato dal panificio municipale, su meritoria iniziativa di don Mimì Calvi, allora gestore con Benvignati dell’azienda, e che veniva lanciato alla folla raccolta sotto il chioschetto di San Francesco.
A Potenza, com’è stato già detto, vi era il comando della VII Armata, che era sistemato con i suoi uffici amministrativi nel vecchio Ospedale di S. Luca, mentre tutti gli altri uffici, quelli della sottozona e quelli logistici, erano situati gli uni, nel larghetto dietro S. Michele e gli altri nella scuola di via Roma. L’intera Armata invece si trovava dislocata sul fronte sud, tra Puglie, Lucania e Calabria, al comando generale di SAR il Duca di Bergamo, cugino diretto di Vittorio Emanuele III. Il sottocapo di Stato Maggiore, a Potenza, era il colonnello Giovanni Faccin, triestino, già distintosi nella Prima Guerra Mondiale (15/18), perciò superdecorato. A lui, che nella mattina del 10 si era rifugiato nella galleria delle ferrovie di Potenza, si presentarono cinque tedeschi, tra cui un ufficiale superiore, per un colloquio di diversi minuti. Pare che al Colonnello fossero state chieste le chiavi della Cassaforte o degli uffici ove erano riposte le carte militari, con tutte le posizioni strategiche dell’armata.
L’interesse dei tedeschi era quello di conoscere le installazioni e le collocazioni nevralgiche, o l’entità delle forze italiane ancora impegnate sui fronti. A tale richiesta pare che il colonnello avesse risposto di non essere in condizioni di fornire notizie, e che le chiavi erano presso un altro ufficiale in quel momento sbandato per il bombardamento. I tedeschi avrebbero insistito facendo subito partire un ufficiale che si trovava in compagnia del colonnello alla ricerca del detentore delle chiavi e che naturalmente non tornò. Un po’ le tergiversazioni del militare italiano, un po’ le scuse che gli ufficiali italiani dovettero parare, fecero sì che i tedeschi si considerassero giocati ed invitarono quindi il colonnello a consegnare la rivoltella.
Faccin estrasse la rivoltella dalla fondina in segno di accondiscendenza, ma invece di consegnarla al nemico se la portò alla tempia, facendo esplodere un colpo.
Altri tedeschi furono impegnati a provocare con dinamite o altri mezzi della tecnica bellica le maggiori difficoltà agli anglo-americani che da un giorno all’altro sarebbero entrati nella città. Si minacciò di minare il palazzo ove abitava la professoressa Cappabianca, la famiglia Cassano: tale operazione con il crollo del fabbricato, avrebbe ostruito la strada di via Mazzini, con tutte le conseguenze per il rifugio pieno di gente, scavato nella scarpata sottostante e con il sicuro crollo degli altri fabbricati. Alle invocazioni ed alle preghiere di tutta la gente interessata e per intercessione di cittadini che riuscirono a parlare col comandante, i tedeschi desistettero dal criminale proposito.
Dopo l’8 settembre i soldati tedeschi cercavano gli antifascisti Reale e Ianfolla, i quali erano a Potenza, nascosti nelle campagne tra i contadini. Reale dormiva in un pagliaio della Masseria Romaniello in contrada Costa della Gaveta.
I tedeschi irruppero nel suo villino, sito in contrada Betlemme, presso l’attuale Philips dei F.lli Buono e non trovandolo si abbandonarono ad atti vandalici, sui mobili e sugli oggetti d’arte.
Visitarono anche il villino dell’on. Ianfolla, dove oggi sorge l’Ospedale psichiatrico accanto alla Villa Catalano. Il villino era stato colpito dalle bombe, e i coloni estraevano dalle macerie il corpo esangue di Ianfolla che spirò subito dopo.
La sera invece avviluppava le intrepide facce nella brezza di Montereale. La radio dell’Eiar trasmetteva i bollettini di guerra intervallati dalle canzoni di Lale Andersen, del trio Lescano e di Alberto Rabagliati.
Conoscevamo ogni punto, ogni nascondiglio della villetta di Piazza XVIII Agosto e sulle panchine si giocava al tris o a dama. La radio trasmittente e ricevente dei tedeschi vi era mimetizzata con il camion ravvolto interamente da una rete, nel verde degli alberi. Si parlava con i tedeschi che ci regalavano qualche marco o qualche dura e nera galletta che, immersa nell’acqua, si gonfiava come una pagnotta. La villetta era il nostro quartier generale, un osservatorio importante. Di là vedevamo partire i soldati con le bandiere e le fanfare, dopo la benedizione del Vescovo, e di là osservammo le colonne corazzate della Panzer Divisionen Göering a fine luglio ’43, già in ritirata dopo lo sbarco alleato in Sicilia (10 luglio ’43).
Dalla Calabria metà divisione venne attraverso la SS. 106 Jonica, per Nova Siri scalo, Policoro, Metaponto, Grassano, Tricarico, Potenza. L’altra metà transitò per Terranova di Pollino, per la SS. 92 dell’Appennino Meridionale, passando per Lagonegro ed immettendosi nella SS. 19 delle Calabrie per Salerno. A Potenza il comando delle colonne in marcia volle dare un’azione dimostrativa, al fine di far constatare alla popolazione la efficienza e la potenza della macchina bellica tedesca, e un forte contingente di reparti salì dal viale del Basento a Piazza XVIII Agosto.
Oltre ai carri “Tigre”, notammo pezzi di artiglieria semovente corazzata e mezzi cingolati dotati di mitragliere e di cannoncini contraerei, le autoblindate, i semicingolati, i veicoli della sussistenza, i carri comando, i carri gettaponte con il ponte collocato sullo scafo, carri per il trasporto dei riflettori, carri lanciafiamme, gli autospedali attrezzati, i carri officina e quelli cucina e i grandi camion con i soldati. A fianco alle colonne scorrevano le motociclette con le staffette porta ordini che sfrecciavano avanti e indietro impolveratissime con il formidabile elmetto e gli occhiali grandi e scuri.
La marchesa Parenti, crocerossina al seguito della VII Armata e che alloggiava presso l’Hotel Moderno, al rumore degli aerei, tentava di tranquillizzare la gente, ritenendo si trattasse di apparecchi italiani ricognitori o di difesa come i “caccia”. Aveva appena finito di parlare quando si udì il primo boato che fece tremare i muri e i vetri delle case. A casa del rag. Falvella si erano rifugiate tutte le famiglie del palazzo perché situata affianco agli scantinati. Dopo alcuni minuti uno studente liceale con i pantaloni alla zuava venne ad avvertire che bisognava risalire agli ultimi piani trattandosi di gas asfissiante. Tutti si scaraventarono sulle scale, anche qualche signora robusta e gli anziani, per raggiungere con i fazzoletti bagnati sul viso, l’ultimo piano. Ma lo stesso studente accertò che invece era in atto una vera e propria incursione con bombe regolari.
Difatti erano anche caduti alcuni spezzoni incendiari, il primo dei quali aveva colpito la latrina pubblica di via Roma, ubicata di fronte al portone dell’Ispettorato Compartimentale Foreste, e l’altro la casa dell’ex federale Carriero a Portasalza.
La notte fu insonne ed agitata, caddero alcune bombe sulla città e nei dintorni.
La mattina del 9 vi fu il primo forte bombardamento. Spuntarono da Rifreddo 40 o 60 fortezze volanti, liberator, che oscurarono il cielo e lasciarono cadere una pioggia di bombe, mentre la gente pensava ad un lancio di volantini. Le bombe erano legate a grappoli di 4 o 5 l’una all’altra con catene, fischiando prima di esplodere. La gente si riversò nelle campagne o nei rifugi di argilla, fatti costruire dal Comune; buona parte trovò scampo nella galleria della Calabro-Lucana.
I rifugi erano naturalmente inadeguati, perché consistevano soltanto nelle gallerie scavate a metà e che non si congiungevano l’una all’altra a ferro di cavallo. Ogni rifugio constava di un’apertura senza sbocco.
Intanto i soldati tedeschi si ritiravano. Al Gallitello, un sottoufficiale-staffetta della gendarmeria, con tuta, falce metallica sul petto e mitra a tracolla, dirigeva il traffico delle colonne in ritirata.
Aveva lasciato l’autoblindo davanti al passaggio a livello. Il nostro compagno Mario di soppiatto riuscì ad aprire la portella del veicolo e ad afferrare un pacco confezionato di tabacco trinciato riavvolto in carta argentata. Quale ardire e quanta incoscienza! Avrebbe potuto, se scoperto, rimanere punito da una scarica di mitra. Il tedesco, indaffarato com’era, non s’accorse di nulla. Continuò imbronciato a fare il suo lavoro. Il gracile ed impavido Mario, scappò con noi e con la refurtiva. Gli tributammo manifestazioni di giubilo e di ammirazione.
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