Dal libro “Sudditi” di Massimo Fini
Democrazia significa, etimologicamente, “governo del popolo”.
Scordiamoci che il popolo abbia mai governato alcunché, almeno da quando
esiste la democrazia liberale. Se c’è qualcosa che fa sorgere
nell’animo di un liberale un puro sentimento di orrore è il governo del
popolo.
A molti miei conoscenti, di buona cultura, quando ho posto la domanda
quale fosse la caratteristica essenziale della democrazia, essi mi
hanno dato le risposte più disparate: “il consenso”, “la libertà”,
“l’uguaglianza”, “la rappresentanza”, “le elezioni”, “il criterio della
maggioranza”, “il controllo sull’attività dei governati”. Si potrebbe
andare avanti, per pagine e per decenni, ma non si troverebbe la regola
base della democrazia liberale.
Anche fra gli addetti ai lavori, gli studiosi delle dottrine
politiche, circolano svariate e quasi infinite definizioni. Però nessun
elemento, preso di per sé, sembra esclusivo della democrazia e quindi
abile a definirla.
Ma allora potrebbe essere il pluripartitismo la caratteristica
essenziale della democrazia in quanto esso sarebbe il sale della
democrazia? Niente affatto! Già negli anni Venti del Novecento, come
sostengono illustri economisti, sociologi e filosofi, l’esistenza dei
partiti non è contemplata da nessuna Costituzione democratica e
liberale.
Oggi, pur avendo i partiti occupato ogni ambito del settore pubblico e
anche parte di quello privato, la Costituzione italiana ne fa cenno in
un solo, scarno, articolo per dire che: “Tutti i cittadini hanno diritto
di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.). Ma
questa possibilità di associarsi è diventata un obbligo cui non ci si
può sottrarre senza condannarsi a una vita al margine. I partiti non
sono l’essenza della democrazia, ne sono la fine.
In realtà nessuna democrazia rappresentativa è una democrazia, ma un
sistema di minoranze organizzate che prevalgono sulla maggioranza dei
cittadini singolarmente presi, soffocandoli, limitandone gravemente la
libertà e tenendoli in una condizione di minorità. È un sistema di
oligarchie come preferiscono chiamarle diversi studiosi e
costituzionalisti.
Chi appartiene a queste oligarchie non ha qualità specifiche. La
classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento
di distinzione unicamente, e tautologicamente, quello di fare politica.
La loro legittimazione è tutta interna al meccanismo politico che le ha
prodotte. Sono i professionisti della politica, che vivono di politica e
sulla politica.
La democrazia è innanzitutto e soprattutto un metodo per determinare la scelta dei governanti.
Infatti il voto del cittadino singolo, libero, non intruppato in
gruppi, si diversifica e si disperde, proprio perché libero, laddove gli
apparati dei partiti, facendo blocco, sono quelli che effettivamente
decidono chi deve essere eletto. Il voto di opinione, cioè il voto
veramente libero, non ha alcun peso rispetto al voto organizzato,
facendolo diventare, in sostanza, un voto non più libero con il consenso
truccato. Noi non scegliamo i candidati alle elezioni. Li scelgono i
partiti, cioè le oligarchie. Il popolo che teoricamente e formalmente
detiene la sovranità subisce quindi una serie di espropriazioni.
Questo enorme ceto medio si divide fra destra e sinistra con la
stessa razionalità con cui si tifa Roma invece che Lazio, Milan o Inter.
E quando il cosiddetto “popolo della sinistra” (o della destra) scende
in piazza per festeggiare qualche vittoria elettorale, ballando,
cantando, saltando, agitandosi, è particolarmente patetico perché i
vantaggi che trae da quella vittoria sono puramente immaginari, o, nella
migliore delle ipotesi, sentimentali, mentre i ricavi reali vanno non a
quegli spettatori illusi ma a chi sta giocando la partita del potere.
Ad ogni tornata elettorale c’è un solo sconfitto sicuro, che non è la
fazione che l’ha perduta ma proprio quel popolo festante insieme a
quell’altro che è rimasto a casa a masticare amaro per le stesse
ragionevoli ragioni per cui l’altro è sceso in piazza. Vinca il Milan o
l’Inter è sempre lo spettatore a pagare lo spettacolo. Quanto ai
giocatori, ai vincitori andrà certamente la parte più consistente del
bottino, ma anche ai perdenti non mancheranno i premi di consolazione.
Fra le oligarchie politiche esiste infatti, checché gridino il
contrario, un tacito patto per non portare il gioco alle estreme
conseguenze. Non conviene a nessuno. C’è tutta la vasta area del
sottogoverno e del parastato che consente di ritagliare le giuste
prebende per i perdenti, garantendosi così che alla tornata successiva, a
parti invertite, sia ricambiato il favore. Per quanto in competizione
per il potere le oligarchie politiche sono unite da un interesse comune
che prevale su tutti gli altri: l’interesse di classe.
Quella politica, con i suoi addentellati, è in pratica la sola classe
rimasta in piazza. Presa nel complesso è una nomenklatura, non molto
diversa da quella sovietica, il cui obiettivo primario è
l’autoconservazione, il mantenimento del potere e dei vantaggi che vi
sono connessi. E il nemico mortale di un oligarca non è tanto un altro
oligarca, col quale si può sempre trovare un accordo, perché si fa parte
della stessa classe, si partecipa allo stesso gioco, ci si sbertuccia
di giorno davanti agli schermi TV e si va a cena la sera, strizzandosi
l’occhio, quasi increduli per aver fatto colpo alla ruota della Fortuna,
ma è proprio il popolo di cui va vampirizzato e magari, una volta ogni
cinque anni, anche pietito il consenso, ma che va tenuto a bada e a
debita distanza dagli arcana del potere democratico, perché continui a
credere, o almeno a fingere di credere, al gioco.
Niente di nuovo sotto il sole. La democrazia non è un regime diverso
da altri. È solo una delle tante forme, forse la più subdola, che nella
Storia ha preso il potere oligarchico. Quelli del mondo feudale si erano
inventati i diritti di sangue, questi il consenso democratico.
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