PER DIFENDERE ABELE LO STATO NON DIVENTI CAINO Elisabetta Zamparutti
Tortura viene da torto (participio passato del verbo torcere) e a guardare le immagini di quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere capiamo cosa significa vivere in uno Stato di Torto e non in uno Stato di Diritto. Siamo stati condannati dalla Corte Europea per i Diritti Umani per i fatti di Genova avvenuti vent’anni fa; abbiamo faticato trent’anni per introdurre il reato di tortura senza neppure riuscire ad attenerci alla definizione chiara e semplice della Convenzione contro la tortura.
Prevenire la tortura, il ricorso alla violenza e all’uso eccessivo della forza significa trasformare allora ciò che è Torto in Diritto in modo che la norma, la regola, sia innanzitutto il limite all’uso della forza arbitraria da parte dello Stato. L’autoritarismo deve lasciare il passo all’autorevolezza. E autorevole è la Ministra Marta Cartabia che ha pubblicamente condannato l’accaduto e soprattutto ha sottolineato la necessità di rafforzare l’attività di formazione del personale dell’amministrazione penitenziaria.
I rapporti, le raccomandazioni, gli standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura insieme a quanto prodotto dal Consiglio d’Europa nel suo insieme restano una guida a sua disposizione in questo senso. “Legge e ordine” deve essere il nostro motto, inteso come sinonimo di coerenza e armonia tra idee, sentimenti e comportamenti orientati ai valori umani universali, per sottrarlo così a chi lo ha malamente monopolizzato e interpretato. Mi riferisco a quelli del potere fine a sé stesso, quelli del “disordine costituito” per dirla con Pannella, quando parlava dei depistaggi, delle coperture istituzionali e di categoria, delle impunità e della mancanza di inchieste effettive. Le immagini, come quelle diffuse solo ora su quanto accaduto oltre un anno fa, hanno sempre una potenza comunicativa e conoscitiva ed è un bene che siano circolate. Spiegano a cosa porti il malsano senso della “legalità”, quella che ridicolizza lo Stato di Diritto, e che ha avuto dep rimente espressione nelle argomentazioni fornite dal precedente Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede quando in Parlamento spiegò l’operato di alcuni agenti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere come un’operazione di “ripristino della legalità”.
Quelle immagini sono la riprova dell’utilità della videosorveglianza come utile può essere l’adozione di codici identificativi, forse più utile ed urgente di quanto poteva essere l’introduzione del taser e lo dico nell’interesse della stessa polizia penitenziaria.
Di fronte ad immagini tanto evidenti quanto disperanti, come fossimo a Baghdad i pestaggi avvengono lungo un “corridoio umano” di agenti, mi sento di dire oggi, che anche per questo corpo di polizia vale il nostro Nessuno tocchi Caino. Nessuno tocchi Caino è rivolto allo Stato, al Potere che cede, degrada alla aberrante, violenta logica dell’emergenza per la quale, nel nome di Abele, per difendere Abele, diventa esso stesso Caino, uno Stato-Caino che pratica la pena di morte, la pena fino alla morte e la morte per pena. Noi siamo i primi difensori dello Stato, se ha i connotati di uno Stato di Diritto. Per questo noi diciamo: Nessuno tocchi Caino! Lo diciamo anche per non incorrere nell’errore di dare per scontata la responsabilità di chi oggi è indagato, il cui accertamento spetta solo all’autorità giudiziaria.
Per la comunità penitenziaria nel suo insieme vale il nostro Spes contra spem che non è solo un motto, è anche un metodo, un progetto, una teoria dell’organizzazione e della prassi politica.
Spes contra spem è rivolto a chi decide di cambiare se stesso, convertire la sua vita dal male al bene, dalla violenza alla nonviolenza, perché sia appunto il cambiamento del suo modo d’essere – di pensare, di sentire e di agire – profetico del cambiamento del mondo in cui vive, dell’ambiente in cui vive, del carcere in cui vive. Spes contra spem è l’iniziativa più adeguata perché volta a far sì che il carcere, luogo strutturalmente concepito come patimento, penitenza (non a caso si chiama penitenziario), luogo totalitario e totalizzante, sia definitivamente superato.
USA: IL PROCURATORE GENERALE GARLAND SOSPENDE LE ESECUZIONI FEDERALI
Il procuratore generale Merrick Garland ha sospeso le esecuzioni federali e ordinato la revisione delle norme in materia introdotte dall’amministrazione Trump.
"Sono state sollevate serie preoccupazioni riguardo all'uso della pena di morte in tutto il paese, compresa l'arbitrarietà nella sua applicazione, l'impatto sproporzionato sulle persone di colore e il numero preoccupante di persone che vengono riconosciute innocenti solo molti anni dopo una condanna a morte. Queste gravi preoccupazioni meritano uno studio attento, e valutazione da parte dei legislatori", ha detto Garland in una nota pubblicata il 1° luglio.
Il portavoce della Casa Bianca, Andrew Bates, in una dichiarazione ha detto che il presidente Biden approva l’iniziativa del Procuratore Generale. "Come il Presidente ha chiarito, egli nutre notevoli preoccupazioni sulla pena di morte e su come viene applicata, e crede che il Dipartimento di Giustizia dovrebbe tornare alla sua precedente prassi di non compiere esecuzioni".
Attualmente ci sono 46 uomini nel braccio della morte federale. Nei bracci della morte statali ci sono invece più di 2.500 uomini e donne, la cui sorte non dipende da questa direttiva di Garland.
"Il Dipartimento di Giustizia deve garantire che a tutti, nel sistema giudiziario federale, non solo vengano garantiti i diritti previsti dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti, ma siano anche trattati in modo equo e umano", ha affermato Garland nella sua nota. "Questo obbligo ha una forza speciale nei casi capitali".
Garland ha detto nel suo promemoria che la vice procuratrice generale, Lisa O. Monaco, supervisionerà una revisione delle politiche del Dipartimento di Giustizia relative alle esecuzioni federali che sono state attuate dall'ex procuratore generale William P. Barr. Ha chiesto che diverse divisioni del Dipartimento, tra cui l'Ufficio delle Prigioni, la Divisione Penale e la Divisione per i Diritti Civili, partecipino, insieme ad altre agenzie federali e gruppi di difesa esterni.
"Il Dipartimento di Giustizia deve prendersi cura di mantenere scrupolosamente il nostro impegno per l'equità e il trattamento umano nell'amministrare le leggi federali esistenti che disciplinano le condanne a morte", ha scritto Garland nel memorandum, citando i cambiamenti che il Dipartimento di Giustizia aveva apportato nel 2019 sotto l'ex procuratore generale William Barr alle politiche e procedure sulla pena di morte federale.
Barr, fortemente sollecitato da Trump, aveva riavviato il meccanismo delle esecuzioni federali che era rimasto fermo per 17 anni. Nonostante gli appelli di leader dei diritti civili, celebrità, legislatori e attivisti anti-pena di morte per fermare le esecuzioni, 12 uomini e una donna sono stati giustiziati durante gli ultimi sette mesi del mandato dell'ex presidente Donald Trump.
La direttiva di Garland includerà una revisione delle modifiche ai regolamenti apportate nel 2020 sotto Barr che hanno ampliato i metodi di esecuzione consentiti oltre l'iniezione letale, includendo anche l’uso del plotone di esecuzione.
A febbraio, durante l'udienza di conferma in Senato, Garland aveva affermato che il numero di casi di condanne ingiuste che si sono verificate in tutto il paese gli avevano imposto una “pausa di riflessione”.
Durante la campagna elettore, Biden aveva preso posizioni più nette contro la pena di morte, prospettando non solo la “moratoria” (seppure informale) annunciata oggi, ma una vera e propria “abolizione della pena di morte federale”. Recentemente Biden è stato oggetto di forti polemiche da parte dei media progressisti per la decisione del Dipartimento di Giustizia di cercare di ottenere dalla Corte Suprema l’annullamento dell’annullamento della condanna a morte di Dzhokhar Tsarnaev, il giovane ceceno che nel 2013 aveva collocato una bomba lungo il percorso della Maratona di Boston uccidendo 3 persone. In quel caso Biden si era affidato ad una imbarazzata dichiarazione di Bates in cui veniva richiamata “l’autonomia del Dipartimento”. Nel caso l’amministrazione Biden dovesse ritirare le motivazioni presentare alla Corte Suprema degli Stati Uniti, la richiesta di riemettere la condanna a morte contro Tsarnaev (un iter giudiziario iniziato dall’amministrazione Trump) verrebbe annullata.
Gli oppositori della pena di morte non sono soddisfatti dell’iniziativa del Procuratore Generale, che considerano troppo timida.
Robert Dunham, Direttore del Death Penalty Information Center: "Se la revisione che farà il Dipartimento è così limitata come suggerisce il memorandum - cioè, affronta solo le cose che l'amministrazione Trump ha fatto per accelerare le esecuzioni ed espandere i metodi disponibili per uccidere i detenuti federali - a malapena scalfisce la superficie della riforma della pena di morte. In poche parole, se l'amministrazione non abroga o commuta, non sta prendendo provvedimenti per porre fine alla pena di morte federale. Potrebbe fare riforme, ma non sta adempiendo all'impegno della campagna di Biden".
L'organizzazione Witness to Innocence ha fatto eco ai sentimenti di Dunham, twittando che l'azione del Dipartimento di Giustizia è un "passo nella giusta direzione, ma non abbastanza. Biden può e deve commutare le condanne a morte federali”.
Suor Helen Prejean, una delle più note attiviste statunitensi contro la pena di morte, ha commentato: "Mentre una moratoria sulle esecuzioni federali ha un valore simbolico, abbiamo visto il pericolo di mezze misure che non affrontano completamente la fondamentale fragilità del nostro sistema di pena di morte. È necessario di più".
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