giovedì 17 gennaio 2019

LA VITA DI ANDREA TRA MARE, TERRA E...CIELO



All’inizio degli anni ‘60 iniziai a fare la pesca subacquea. I mezzi erano molto rudimentali ma i pesci nel mare non mancavano. Avevo una maschera ereditata da mio fratello, molto vecchia, con il vetro lesionato e la gomma ingottata. Ogni momento dovevo togliere l’acqua che vi entrava e mi faceva bruciare gli occhi. Il vetro era sempre appannato ed io stavo sempre a sputarci sopra, così si usava spannare le maschere. Avevo una sola pinna n° 42-44 di colore nero, ricucita nel tallone ed ingottata ma con essa al piede mi sembrava di volare. Tre stecche di ombrello legate assieme facevano da arco mentre un’altra appuntita faceva da fiocina. Triglie e polipi erano il mio bersaglio preferito. I saraghi li colpivo spesso ma non restavano legati alla fiocina, divincolandosi si staccavano ed io li inseguivo fino a quando non scomparivano tra gli scogli o tra le alghe, raramente riuscivo a riprenderli.
Ad un paio di metri dalla riva della spiaggia del porto c’era un dislivello, si chiamava il gradone che aveva un paio di metri di profondità, su questa linea si svolgeva la mia pescata. Mai tornavo a casa senza pesci, mia madre mi sgridava sempre perché diceva che era pericoloso e voleva che non dovessi pescare mai da solo. Questo problema si risolse quando prese in fitto una stanzetta, proprio sulla spiaggia, Andrea, un ragazzo di Maratea, figlio di gente facoltosa, che amava fare la pesca subacquea.
Aveva una vistosa cicatrice proprio sopra un polmone causata dallo scoppio di un ordigno bellico che aveva ammazzato un suo fratello e ferito lui. Evidentemente la ferita non gli aveva danneggiato tanto il polmone in quanto aveva un’apnea che superava i due minuti. Nella sua minuscola stanzetta teneva la sua attrezzatura subacquea, un fucile a molle che si chiamava “cernia sport“ molto lungo e dall’aria minacciosa, per caricarlo bisognava sudare tanto era lunga e dura la sua molla. Poi maschere, pinne, fiocine, arpioni, una muta e un paio di cinghie piombate. Un anziano marinaio del porto, Giseppo, spesso gli prestava la propria barchetta a remi per andare a fare la pesca subacquea e ci voleva un ragazzo che lo doveva seguire remandogli dietro.
Io, pur di stare a mare avrei fatto di tutto e mi offrii di remare e seguirlo con la barca. La prima volta volle il consenso di mia madre, che arrivò dopo mille raccomandazioni, tramite mio fratello Pinuccio. Non stavo nella pelle nel vedere quelle pinne nuove e lunghe, fucili a due colpi, maschere stupende e la possibilità di poterle usare, anche se per poco tempo. A raggiungere la zona di pesca ci pensava lui remando con vigore consapevole che ero ancora troppo piccolo per condurre a lungo quella barca ma appena si tuffava in acqua io diventavo padrone della barca e mi adoperavo a seguirlo con molta attenzione.
Non era un compito facile perché spesso cambiava direzione, si immergeva per poi ricomparire molto distante e quando riemergeva con qualche pesce infilzato alla fiocina mi dava fretta di raggiungerlo perché era impaziente; in quel frangente io mi imbranavo, non riuscivo a remare bene, la barca diventava ad un tratto pesantissima ed impiegavo sempre più tempo del dovuto. Lui prima imprecava un poco, poi appena il pesce era a bordo sorrideva e mi prendeva in giro dicendomi che ero un “cucco”.
Ogni volta che tornavamo a terra mi regalava sempre uno o due pesci da portare a casa, si trattava spesso di saraghi corvine e cerniole. Di cernie ne prendeva tante e grandi, una di esse pesava 22 chili, era un mostro, per salirla se l’era abbracciata e le sue spine dorsali gli avevano bucato la muta e il petto mentre le branchie gli avevano tagliato le mani, ma lui non aveva affatto mollato la presa. Conosceva bene il fondo del mare e le tane delle cernie che visitava con grande temerarietà.
Mi disse una volta che conosceva una tana di cernia molto profonda che a metà del tunnel doveva riemergere sotto lo scoglio dove c’era una bolla d’aria, respirare dentro la bolla per poi ritornare indietro. Questo fatto mi fece paura perché pensavo che io non sarei mai riuscito a respirare al buio dentro una bolla d’aria vecchia di chissà quanto tempo. Solo una grandissima mareggiata avrebbe potuto permettere il ricambio di quell’aria. In quella tana ogni anno prendeva 2 o 3 cernie di sette-otto chili ciascuna.
Quando durante la pesca si stancava, saliva a bordo e si metteva a sonnecchiare sopra la prua. Per me era il momento migliore, buttavo subito l’ancora che consisteva in un sasso legato ad un libano (corda vegetale di produzione locale) e mi prendevo la sua maschera, le sue pinne che mi andavano larghissime, mi facevo caricare il suo fucile più piccolo, una “saetta A“ che usava per la pesca in tana ed aveva una fiocina a tre punte con la quale mi sentivo un leone. Spesso sparavo dei grossi polipi nelle tane e poi non riuscivo a togliere la fiocina dal buco, dopo vari tentativi mi finiva il fiato e sfinito ritornavo sulla barca e pregavo Andrea di andare a recuperare sia il fucile che il polipo.
Lui non amava rituffarsi per recuperare un semplice polipetto e un giorno mi diede un pezzo di sigaro e mi disse di ficcarlo nella tana del polipo ed aspettare la sua fuoruscita. Così fu e da quel giorno portai con me sempre un mozzicone di sigaro ed un pezzo di verderame che faceva lo stesso effetto.
Andrea aveva una fidanzata che imbarcava sugli scogli e se la portava in zone appartate perché la cosa non era ufficiale. Io ero suo complice e spesso mi toccava tenere la luce, assistere cioè alle loro effusioni, in verità mai troppo osé, spesso mi diceva di andare a pescare con la sua attrezzatura ma che non mi dovevo recare da lui a ricaricare il fucile quindi andavo con l’arco fatto di stecche d’ombrello. Molto spesso i marinai ci venivano a cercare per portare Andrea a scarammare il filaccione arrancato.
Quasi sempre quando le cernie abboccavano se ne rientravano nelle loro tane rendendo impossibile ai marinai il recupero della lenza. Toccava ad Andrea in questi casi, entrare nelle tane e scarammare il filaccione con la cernia ancora abboccata. I marinai ringraziavano e volevano pagare Andrea magari regalandogli un pezzo di cernia ma lui non voleva mai nulla. Questo compito, quando sono cresciuto l’ho ereditato io, non con la stessa maestria ma mi sono sentito onorato della fiducia concessami.
Quando il mare era un poco mosso mi tornava difficile seguire Andrea, a volte lo perdevo di vista, lui quando si accorgeva che non lo seguivo più, mi aspettava e si faceva vedere alzando il suo lungo fucile, ma a volte, preso dalla pesca non si accorgeva nemmeno lui di non essere più seguito e una volta mi sono disperato perché non lo trovavo davvero più. Dopo lunghe e infruttuose ricerche me ne sono tornato da solo al porto piangendo sicuro che fosse morto annegato. E’ ricomparso invece al porto nuotando per un paio di miglia e camminando sugli scogli con tutto il suo armamentario e quando mi ha visto mi ha pure sgridato.
Il destino aveva però deciso che Andrea doveva veramente morire, molti anni dopo, proprio in quel mare che aveva tanto amato, mentre faceva pesca subacquea, per un incidente o forse per un malore.
Il suo volto bonario aleggia sempre in tutte le menti della gente che lo ha conosciuto e un’associazione di subacquei porta il suo nome.


 IL NEGOZIO
di
SANDRA PUCCINI

Ci sono luoghi – opera dell’uomo – ai quali il tempo che è trascorso  ha dato un fascino, un’eleganza, una rigorosa completezza che nessun manufatto recente può eguagliare. Sono semplici abitazioni contadine, piccole chiese abbandonate e dimenticate dai fedeli, vecchi muri a secco di terrazzamenti disusati  che ricoprivano le nostre più impervie colline - su cui continuano a crescere, stenti e contorti, ulivi e  carrubi -; filari dritti e regolari di viti ancora sorrette dai pali di legno o dai tronchi degli olmi;  case di campagna cadenti e solitarie, con finestre vuote dalle proporzioni perfette. E la loro bellezza  non dipende solo dalla patina antica che li avvolge.
  Così era il negozio di Scoppetta: remoto, antico, nobile – se questo aggettivo si può usare per un oggetto inanimato.
Stava, con la sua grande vetrina e l’ampio ingresso, sul corso di Maratea,  poco prima della piazza, quasi a presidiarne l’accesso. Occupava l’intero piano terra di un palazzetto costruito ai primi del Novecento, intonacato di bianco, con i balconi di ferro battuto dalle leggere linee floreali. Gli stucchi che decoravano i cornicioni e gli angoli dell’edificio riprendevano nitidi lo stile  deco,  forse portato in questa terra del Sud dagli emigrati tornati dal centro Europa o dal nord America che lo avevano reinventato nei colori e nelle forme meridionali, fino a  renderlo simile a quei dolci locali, fatti di zucchero e chiara d’uovo. La vetrina a tre ante aveva le cornici di legno intarsiato sovrastate da mascheroni ovali, allungati – musi grotteschi di animali immaginari. Entrando si era accolti da un vasto ambiente ombroso, quasi buio, con un alto soffitto oscuro, tutto foderato di scaffali di legno intagliato con gli stessi morbidi decori floreali: alcuni ripiani chiusi da vetri, altri suddivisi in cassetti, altri ancora aperti a mostrare le merci più disparate allineate in disordine fino al soffitto. Al centro di un lungo bancone a semicerchio, separata e contenuta da una piccola vetrata, stava una grande cassa di ottone tintinnante: giunta fino a noi da un’epoca nella quale anche gli oggetti dell’industria erano decorati per mascherare, pudicamente, l’essenzialità del loro uso, la loro “modernità”.
Chi fosse entrato nel negozio una trentina di anni fa, vi avrebbe trovato un uomo bello e gentile, di una età indefinibile tra i 30 e i 40 anni e, seminascosta dietro la cassa imponente,  una vecchia con i capelli bianchi, tutta vestita di nero, piccola piccola e sempre sorridente che, nonostante l’età apparentemente veneranda, riconosceva tutti e non sbagliava mai nel dare il resto ai clienti e che avrebbe occupato il suo posto nella bottega quasi  fino al giorno della sua morte.
L’uomo era il proprietario del negozio, Andrea; la donna era sua madre. Li univa, palpabile,  un legame  di affettuosa e intima consuetudine che, se non li si conosceva, faceva pensare  che lui fosse scapolo e che i due condividessero, oltre alla comunanza tra le mura del negozio e la consonanza nel lavoro, anche il resto della loro vita.
Come recitava una insegna appesa fuori, con le lettere incise su una grande lastra di metallo, il negozio era stato fondato nel 1920 dai fratelli Scoppetta ed era giunto ad Andrea dal padre, ormai morto da molti anni.
Probabilmente era stato lui il principale artefice della ricchezza della famiglia: interi palazzi  nel centro della cittadina, terreni nelle fertili campagne circostanti, e soprattutto l’ampliamento della bellissima casa di famiglia, che - all’inizio degli anni Trenta - si era aggiunto come una propaggine alla più antica e severa residenza originaria. Era un prolungamento leggero, che si appoggiava ad un lato dell’edificio quadrato e ne proseguiva la facciata  con una lunga e ariosa vetrata liberty affacciata  su un giardino pensile dove crescevano oleandri e  palme sottili e dal quale si dominava la valle fino al mare.
La mamma di Andrea era ricordata da tutti come una donna buona e generosa, e lui, fin dal sorriso aperto e disarmante, le somigliava e da lei aveva ereditato l’umanità e quel disinteresse aristocratico verso i soldi – e verso il suo stesso mestiere di commerciante – che lo rendevano affascinante ed anomalo, quasi fuori posto in quel luogo e in quel mestiere.
Per molto tempo nel negozio si erano venduti soprattutto articoli di ferramenta: strumenti di lavoro, chiodi, viti, candele, vernici, scale, lampadine, solventi. C’erano però anche i casalinghi: pentole, piatti, bilance di ottone, vasi di coccio e di vetro con il tappo per conservare i cibi, bicchieri, qualche lampada, posate. Un assortimento dimesso ed essenziale, per una clientela che – negli anni Sessanta – era formata in larga parte dai contadini poveri che arrivavano dalle campagne circostanti nella piccola città – da sempre punto di passaggio delle merci – per acquistare le poche, indispensabili cose necessarie al lavoro e alla vita domestica.
Poi, man mano che anche lì era giunto il turismo,  portando  benessere e perfino qualche ricchezza, gli oggetti erano diventati più raffinati e il negozio aveva cominciato ad allineare sui suoi ripiani, accanto ai vecchi e modesti oggetti di uso comune, articoli più importanti:  porcellane di Limoges, cristalli di Boemia, tazzine da the inglesi e bavaresi, eleganti servizi di stoviglie pregiate per i regali di nozze. E visto che erano sempre più numerosi i turisti che compravano lì una casa per le vacanze, si erano aggiunte anche lucide maniglie d’ottone con i loro battenti a forma di sfinge o di testa di leone per i portoni delle antiche case restaurate, lampade e lumi di metallo brunito o di legno anticato, attaccapanni, qualche mobiletto.
Ma Andrea era rimasto quello di sempre.
Se si aveva bisogno di un martello o di un cacciavite, lui spariva nei bui meandri del negozio a cercarlo e, una volta trovato lo strumento richiesto dal cliente, quasi sempre gli si rivolgeva dicendo: “Ma no, non ve lo comprate, se vi serve, ve lo presto, voi ci fate quello che ci dovete fare e poi me lo riportate”. Oppure, senza neanche mettersi alla ricerca dell’oggetto: “Si, ce l’ho, ma non è buono. Andate da Trotta”, che era il proprietario dell’altro negozio di ferramenta del paese e avrebbe dovuto essere il suo rivale.
Si raccontava che una volta una signora del paese, che aveva in programma una cena con tante persone e si era accorta di non avere un contenitore abbastanza grande per la pasta, era andata da lui per comprare un piatto da portata. Andrea le aveva fatto vedere il suo assortimento, ma erano tutti pezzi importanti e il più economico dei quali costava più di centomila lire. La signora aveva detto che non voleva (o non poteva) spendere tanto per una cena e lui, allora, le aveva proposto: “Prendetelo e usatelo. Poi lo lavate e me lo riportate: tanto vi conosco…”.
Ogni tanto, sugli scaffali o in vetrina, comparivano vecchi oggetti che stridevano con il nitore delle altre merci:  borse di paglia rosse da una parte e rosa dall’altra, dove la luce le aveva scolorite; cartoline illustrate in bianco e nero, che mostravano le case sul mare com’erano cinquant’anni fa,  prima del boom turistico; cappelli da spiaggia un po’ storti, che portavano impressi i segni del tempo passato; borse da mare di plastica antica, deformate ed ingiallite. Tutti fondi di magazzino che Andrea ritrovava per caso, in qualche angolo inesplorato del grande locale, e che gli sembravano ancora belli e vendibili. Immancabilmente questi oggetti (tranne, naturalmente, le cartoline) costavano 5.000 lire, anche se non ne valevano neppure 1.000. Un prezzo che però non era dettato da avidità di commerciante. Andrea considerava affascinanti quelle vecchie cose nobilitate dal tempo: lui stesso le avrebbe comprate ed indossate volentieri e pensava che avrebbero  potuto trovare un amatore, magari qualche collezionista. Le esponeva perciò con una soddisfazione un po’ infantile, attaccandole ad uno dei ganci che pendevano dal soffitto del negozio.
Del resto, la sua  indifferenza per il denaro era dimostrata dal fatto che sempre, al momento di pagare, senza che il cliente ne facesse richiesta, era lui, di sua iniziativa, a fare lo sconto, arrotondando il prezzo con la sua grazia ritrosa e sorridente.
E sembrava che tutta la sua vita fosse racchiusa nelle quattro mura del negozio.
Invece, a poco a poco, si veniva a sapere che Andrea aveva molti altri interessi e una moglie.
Innanzitutto, era un grande pescatore subacqueo, ammirato e conosciuto lungo tutta la costa (anche Gian Paolo Nitti lo stimava e qualche volta andava a pesca con lui), che aveva insegnato – nel suo modo timido, con la sua aria modesta - le tecniche di pesca a molti giovani del paese che lo consideravano un maestro. Malgrado il suo aspetto fragile e nonostante il fatto che, da ragazzo, avesse avuto un grave incidente di cui portava ancora le vaste cicatrici sul petto, andava a pesca da solo ed era capace di scendere in apnea fino a 15-20 metri, con una attrezzatura che negli ultimi anni era migliorata ma che, per molto tempo, era stata simile  agli oggetti polverosi che tirava fuori dai suoi magazzini: maschere e boccagli di forma antiquata che risalivano agli anni Sessanta, mute slabbrate accomodate con lo scotch, pinne macerate dall’intenso uso, coltelli affilati che riponeva con cura in custodie ricavate da vecchi scampoli di tela cerata e che allacciava fortunosamente alle gambe con pezzi di elastico. Il tutto, racchiuso ordinatamente in una di quelle sacche di vecchia plastica rinsecchita che proponeva in vendita alla sua clientela. Ma conosceva meglio di chiunque altro i fondali della costa e le abitudini dei pesci: sapeva dov’erano le tane delle cernie e delle murene e quali erano il modo e il tempo migliori per catturarle;  e dalle sue cacce non tornava mai a mani vuote.
Poi, nella stagione morta, quando la clientela si faceva più rara, chiudeva il negozio e, con sua moglie Rosa, faceva lunghi viaggi in paesi lontani ed esotici, per conoscere posti nuovi (e nuovi fondali marini).
Rosa era più giovane di Andrea. Aveva il volto affilato simile a quello di un uccello, grandi occhi neri ed un corpo sinuoso, insieme esile e femminile. La sua famiglia era emigrata in Venezuela quando lei era piccola, ma periodicamente tornava nel paese natio. Ancora bambina, si era invaghita di lui – erano lontani parenti – e quando, ormai adulta, aveva deciso di rimanere in Italia, quell’amore infantile si era rafforzato ed infine era stato coronato dalle nozze.
Dopo il matrimonio si erano costruiti una villetta, nella stessa strada in cui stava la grande casa avita che era toccata in eredità al fratello (professionista in una città del Nord). La loro abitazione era assai più modesta: un solo piano,  un piccolo giardino sul quale si apriva un vasto soggiorno dalle finestre enormi che davano all’edificio le fattezze di un insetto dai grandi occhi o quelle di certi pesci dal muso sporgente e lo rendevano bizzarro, sproporzionato, come un volto dall’espressione perennemente stupita.
Pure, quelle finestre, avevano una ragione e dunque una storia. Fatte con il legno dei castagni che crescevano rigogliosi alle spalle del paese,  esistevano prima della casa: infatti, il padre di Andrea, tanti anni prima, le aveva  commissionate ad un artigiano di quelli di una volta e poi le aveva messe da parte (forse in uno dei suoi tanti magazzini), pensando che un giorno o l’altro avrebbero potuto essere utilizzate. Erano finestre bellissime, come non se ne trovavano più e Andrea, infischiandosene delle proporzioni, aveva adattato la casa a quegli infissi: insomma, l’aveva fatta crescere intorno alle finestre.  
Rosa e Andrea non avevano avuto figli. Come spesso accade in questi casi erano una coppia unita e solidale e, dopo trent’anni, si amavano ancora teneramente.
Dopo la morte della suocera,  di pomeriggio Rosa  raggiungeva il marito in negozio: gli dava una mano e intanto gli faceva compagnia.
Questa vita tranquilla, sentimenti saldi e sicurezze quotidiane, si era spezzata all’improvviso quando  Rosa aveva scoperto di avere un tumore. Era cominciata allora quella dolorosa odissea che si accompagna alla malattia:  operazioni, chemioterapie, miglioramenti e peggioramenti, ricoveri e ritorni a casa con l’illusione di essere guarita, per poi ricominciare da capo con tutta la trafila. E Andrea sembrava patire la infermità della moglie sulla sua pelle, come se il malato fosse lui. Quando – in un ospedale del Nord – le era stata fatta la diagnosi di un “male incurabile”, era stato lui a piangere e a disperarsi; ed era stata lei a doverlo confortare e sostenere – come raccontava lei con tenerezza protettiva.
Tornati a casa dopo il primo ciclo di cure, si erano mostrati più uniti di prima. Lei gli era sempre accanto e lui la guardava con amore, quasi come temesse di non vederla più, di perderla all’improvviso. Invece la malattia si prolungava, mentre le speranze di guarire diminuivano. Rosa era condannata. E in molti pensavano che Andrea non ce l’avrebbe fatta a sopravviverle, e che sarebbe morto anche lui.
La sua sola distrazione, la sua unica passione oltre la moglie, rimaneva la pesca. E ci andava da solo, all’alba, cominciando fin dalla primavera, quando l’aria  tersa e serena già vibrava dei colori dell’estate vicina e preannunciava il primo caldo, le lunghe giornate assolate.
Una mattina era uscito prestissimo, che appena albeggiava, mentre Rosa dormiva. Voleva portarle del pesce per il pranzo: lei si doveva  nutrire, aveva bisogno di mangiare cibi genuini e saporiti, perchè – già magra – ora si era fatta pallida ed emaciata mentre avrebbe avuto bisogno di tutte le sue forze per combattere la malattia.
Quando lei si era svegliata, lui non c’era e alle 9 non era ancora tornato.
Un ragazzo, amico e allievo di Andrea,  che conosceva anche lui i punti più pescosi della costa e che era andato a pescare in una  caletta, aveva visto galleggiare qualcosa nell’acqua limpida: era una pinna. Sotto, incastrato tra le rocce, c’era il corpo ormai senza vita di Andrea. Si disse che forse si era spinto troppo a fondo per inseguire una preda ed era rimasto imprigionato: quando aveva provato a risalire,  l’angoscia di non farcela a liberarsi l’aveva privato del suo sangue freddo, bloccandolo sul fondo. Si parlò anche di un malore: lui non era mai stato spericolato, ma ormai aveva ormai più di 60 anni – un’età che consigliava la prudenza. Ma la verità non la conosceva nessuno: solo congetture, ipotesi, fantasie. Si disse perfino che quella fine se la fosse cercata, per non dover assistere alla morte di Rosa, per non essere costretto a vivere senza di lei.
Ma come dirlo a lei? Chi le avrebbe dato la notizia?
Quando Rosa si vide comparire davanti la sorella, accompagnata da alcuni giovani, ad un’ora insolita e con il viso cupo e addolorato, capì che era successo qualcosa di grave e pensò subito ad Andrea. E indovinò prima ancora che qualcuno parlasse. Restò muta, incredula, impietrita. E tutti pensarono che quella perdita l’avrebbe uccisa.
Al funerale lei era in prima fila, inebetita, disfatta dalle lacrime. E la chiesa era piena. Tutto il paese – e anche molti villeggianti – avevano voluto salutare Andrea per l’ultima volta, ricordare l’uomo gentile, la sua dignità, i suoi insegnamenti, la sua finezza. Era anche un modo di star vicini a Rosa, di farle sentire che non era sola, che il suo dolore era condiviso da tanti: anche se non avevano figli, molti giovani avevano trovato in lui un modello paterno, un esempio da imitare. E  gli avevano voluto bene, come altri avevano trovato in lei – che era maestra – una dolce presenza quotidiana.
Per qualche giorno il negozio rimase chiuso, le serrande abbassate. In lutto.
Poi, sorprendentemente, venne riaperto e Rosa era lì, seduta su una poltroncina, troppo stanca e malata per lavorare, ma presente. A chi entrava per salutarla, diceva che non poteva credere che Andrea non ci fosse più; che quando stava lì dentro, si aspettava di vederlo arrivare sorridente dal retro bottega – e forse ci sperava.
I mesi passavano, Rosa stava sempre peggio: ma la vita non voleva abbandonarla. Contro ogni previsione, contro i suoi stessi desideri, lei continuava a vivere.
Un anno sarebbe passato prima che – lentamente, proprio come una candela che si va consumando piano piano – anche Rosa  si spegnesse.
Ancora una volta, dopo il suo funerale, il negozio venne riaperto: se ne occupavano i  parenti, per smaltire tutta quella merce che si era accumulata in quasi un secolo. Gli scaffali si andavano svuotando, come le vetrine. E si diceva che lo avrebbero venduto, perché nessuno di loro era commerciante, a nessuno interessava proseguire l’attività che aveva impegnato la famiglia Scoppetta per più di due generazioni. Anche la bottega, dunque, era condannata a morte.
Ma se i morti vengono seppelliti e si fanno polvere, che cosa sarebbe accaduto di quel luogo? Sarebbe stato conservato, con il rispetto che si deve al passato, oppure sarebbe stato distrutto dai nuovi acquirenti, trasformato in una pizzeria o in un fast food, come volevano le leggi del mercato e le mode? 
Certo, un negozio non è una chiesa, non è un palazzo antico, a proteggere i quali possono intervenire le istituzioni, per impedirne la rovina o la distruzione. Eppure, la memoria di un paese e la storia della sua gente, spesso, sono racchiuse anche – e forse più tenacemente – in posti come quello, che sono stati animati dalla vita di tanti uomini e abitati dalle consuetudini quotidiane.
Quel negozio merita rispetto e attenzione: come se fosse un monumento – o una persona. Anche se non è fatto di carne e sangue, pure, è un concentrato di ricordi e di vite vissute.
E forse dietro al bancone, o in fondo, nel buio dei grandi e misteriosi magazzini,  aleggia ancora lo spirito di Andrea. Come ha creduto e sperato Rosa, fino alla fine. 

Sandra Puccini

Nessun commento:

Posta un commento