Di seguito il ricordo di Andrea Scoppetta come magistralmente scritto da Aldo Fiorenzano in "Andrea" e da Sandra Puccini in "Il Negozio".
DA 'u funnicu
Museo virtuale della civiltá marinara di Maratea
All’inizio degli anni ‘60
iniziai a fare la pesca subacquea. I mezzi erano molto rudimentali ma i
pesci nel mare non mancavano. Avevo una maschera ereditata da mio
fratello, molto vecchia, con il vetro lesionato e la gomma ingottata.
Ogni momento dovevo togliere l’acqua che vi entrava e mi faceva bruciare
gli occhi. Il vetro era sempre appannato ed io stavo sempre a sputarci
sopra, così si usava spannare le maschere. Avevo una sola pinna n° 42-44
di colore nero, ricucita nel tallone ed ingottata ma con essa al piede
mi sembrava di volare. Tre stecche di ombrello legate assieme facevano
da arco mentre un’altra appuntita faceva da fiocina. Triglie e polipi
erano il mio bersaglio preferito. I saraghi li colpivo spesso ma non
restavano legati alla fiocina, divincolandosi si staccavano ed io li
inseguivo fino a quando non scomparivano tra gli scogli o tra le alghe,
raramente riuscivo a riprenderli.
Ad un paio di metri
dalla riva della spiaggia del porto c’era un dislivello, si chiamava il
gradone che aveva un paio di metri di profondità, su questa linea si
svolgeva la mia pescata. Mai tornavo a casa senza pesci, mia madre mi
sgridava sempre perché diceva che era pericoloso e voleva che non
dovessi pescare mai da solo. Questo problema si risolse quando prese in
fitto una stanzetta, proprio sulla spiaggia, Andrea, un ragazzo di
Maratea, figlio di gente facoltosa, che amava fare la pesca subacquea.
Aveva una vistosa
cicatrice proprio sopra un polmone causata dallo scoppio di un ordigno
bellico che aveva ammazzato un suo fratello e ferito lui. Evidentemente
la ferita non gli aveva danneggiato tanto il polmone in quanto aveva
un’apnea che superava i due minuti. Nella sua minuscola stanzetta teneva
la sua attrezzatura subacquea, un fucile a molle che si chiamava
“cernia sport“ molto lungo e dall’aria minacciosa, per caricarlo
bisognava sudare tanto era lunga e dura la sua molla. Poi maschere,
pinne, fiocine, arpioni, una muta e un paio di cinghie piombate. Un
anziano marinaio del porto, Giseppo, spesso gli prestava la propria
barchetta a remi per andare a fare la pesca subacquea e ci voleva un
ragazzo che lo doveva seguire remandogli dietro.
Io, pur di stare a
mare avrei fatto di tutto e mi offrii di remare e seguirlo con la barca.
La prima volta volle il consenso di mia madre, che arrivò dopo mille
raccomandazioni, tramite mio fratello Pinuccio. Non stavo nella pelle
nel vedere quelle pinne nuove e lunghe, fucili a due colpi, maschere
stupende e la possibilità di poterle usare, anche se per poco tempo. A
raggiungere la zona di pesca ci pensava lui remando con vigore
consapevole che ero ancora troppo piccolo per condurre a lungo quella
barca ma appena si tuffava in acqua io diventavo padrone della barca e
mi adoperavo a seguirlo con molta attenzione.
Non era un compito
facile perché spesso cambiava direzione, si immergeva per poi
ricomparire molto distante e quando riemergeva con qualche pesce
infilzato alla fiocina mi dava fretta di raggiungerlo perché era
impaziente; in quel frangente io mi imbranavo, non riuscivo a remare
bene, la barca diventava ad un tratto pesantissima ed impiegavo sempre
più tempo del dovuto. Lui prima imprecava un poco, poi appena il pesce
era a bordo sorrideva e mi prendeva in giro dicendomi che ero un
“cucco”.
Ogni volta che
tornavamo a terra mi regalava sempre uno o due pesci da portare a casa,
si trattava spesso di saraghi corvine e cerniole. Di cernie ne prendeva
tante e grandi, una di esse pesava 22 chili, era un mostro, per salirla
se l’era abbracciata e le sue spine dorsali gli avevano bucato la muta e
il petto mentre le branchie gli avevano tagliato le mani, ma lui non
aveva affatto mollato la presa. Conosceva bene il fondo del mare e le
tane delle cernie che visitava con grande temerarietà.
Mi disse una volta che
conosceva una tana di cernia molto profonda che a metà del tunnel
doveva riemergere sotto lo scoglio dove c’era una bolla d’aria,
respirare dentro la bolla per poi ritornare indietro. Questo fatto mi
fece paura perché pensavo che io non sarei mai riuscito a respirare al
buio dentro una bolla d’aria vecchia di chissà quanto tempo. Solo una
grandissima mareggiata avrebbe potuto permettere il ricambio di
quell’aria. In quella tana ogni anno prendeva 2 o 3 cernie di sette-otto
chili ciascuna.
Quando durante la
pesca si stancava, saliva a bordo e si metteva a sonnecchiare sopra la
prua. Per me era il momento migliore, buttavo subito l’ancora che
consisteva in un sasso legato ad un libano (corda vegetale di produzione
locale) e mi prendevo la sua maschera, le sue pinne che mi andavano
larghissime, mi facevo caricare il suo fucile più piccolo, una “saetta
A“ che usava per la pesca in tana ed aveva una fiocina a tre punte con
la quale mi sentivo un leone. Spesso sparavo dei grossi polipi nelle
tane e poi non riuscivo a togliere la fiocina dal buco, dopo vari
tentativi mi finiva il fiato e sfinito ritornavo sulla barca e pregavo
Andrea di andare a recuperare sia il fucile che il polipo.
Lui non amava
rituffarsi per recuperare un semplice polipetto e un giorno mi diede un
pezzo di sigaro e mi disse di ficcarlo nella tana del polipo ed
aspettare la sua fuoruscita. Così fu e da quel giorno portai con me
sempre un mozzicone di sigaro ed un pezzo di verderame che faceva lo
stesso effetto.
Andrea aveva una
fidanzata che imbarcava sugli scogli e se la portava in zone appartate
perché la cosa non era ufficiale. Io ero suo complice e spesso mi
toccava tenere la luce, assistere cioè alle loro effusioni, in verità
mai troppo osé, spesso mi diceva di andare a pescare con la sua
attrezzatura ma che non mi dovevo recare da lui a ricaricare il fucile
quindi andavo con l’arco fatto di stecche d’ombrello. Molto spesso i
marinai ci venivano a cercare per portare Andrea a scarammare il
filaccione arrancato.
Quasi sempre quando le
cernie abboccavano se ne rientravano nelle loro tane rendendo
impossibile ai marinai il recupero della lenza. Toccava ad Andrea in
questi casi, entrare nelle tane e scarammare il filaccione con la cernia
ancora abboccata. I marinai ringraziavano e volevano pagare Andrea
magari regalandogli un pezzo di cernia ma lui non voleva mai nulla.
Questo compito, quando sono cresciuto l’ho ereditato io, non con la
stessa maestria ma mi sono sentito onorato della fiducia concessami.
Quando il mare era un
poco mosso mi tornava difficile seguire Andrea, a volte lo perdevo di
vista, lui quando si accorgeva che non lo seguivo più, mi aspettava e si
faceva vedere alzando il suo lungo fucile, ma a volte, preso dalla
pesca non si accorgeva nemmeno lui di non essere più seguito e una volta
mi sono disperato perché non lo trovavo davvero più. Dopo lunghe e
infruttuose ricerche me ne sono tornato da solo al porto piangendo
sicuro che fosse morto annegato. E’ ricomparso invece al porto nuotando
per un paio di miglia e camminando sugli scogli con tutto il suo
armamentario e quando mi ha visto mi ha pure sgridato.
Il destino aveva però
deciso che Andrea doveva veramente morire, molti anni dopo, proprio in
quel mare che aveva tanto amato, mentre faceva pesca subacquea, per un
incidente o forse per un malore.
Il suo volto bonario
aleggia sempre in tutte le menti della gente che lo ha conosciuto e
un’associazione di subacquei porta il suo nome.
Ci sono luoghi – opera dell’uomo – ai quali il tempo che è trascorso ha dato un fascino, un’eleganza, una rigorosa completezza che nessun manufatto recente può eguagliare. Sono semplici abitazioni contadine, piccole chiese abbandonate e dimenticate dai fedeli, vecchi muri a secco di terrazzamenti disusati che ricoprivano le nostre più impervie colline - su cui continuano a crescere, stenti e contorti, ulivi e carrubi -; filari dritti e regolari di viti ancora sorrette dai pali di legno o dai tronchi degli olmi; case di campagna cadenti e solitarie, con finestre vuote dalle proporzioni perfette. E la loro bellezza non dipende solo dalla patina antica che li avvolge.
IL
NEGOZIO
di
SANDRA
PUCCINI
Ci sono luoghi – opera dell’uomo – ai quali il tempo che è trascorso ha dato un fascino, un’eleganza, una rigorosa completezza che nessun manufatto recente può eguagliare. Sono semplici abitazioni contadine, piccole chiese abbandonate e dimenticate dai fedeli, vecchi muri a secco di terrazzamenti disusati che ricoprivano le nostre più impervie colline - su cui continuano a crescere, stenti e contorti, ulivi e carrubi -; filari dritti e regolari di viti ancora sorrette dai pali di legno o dai tronchi degli olmi; case di campagna cadenti e solitarie, con finestre vuote dalle proporzioni perfette. E la loro bellezza non dipende solo dalla patina antica che li avvolge.
Così era il negozio di Scoppetta:
remoto, antico, nobile – se questo aggettivo si può usare per un oggetto
inanimato.
Stava,
con la sua grande vetrina e l’ampio ingresso, sul corso di Maratea,
poco prima della piazza, quasi a presidiarne l’accesso. Occupava l’intero
piano terra di un palazzetto costruito ai primi del Novecento, intonacato di
bianco, con i balconi di ferro battuto dalle leggere linee floreali. Gli stucchi
che decoravano i cornicioni e gli angoli dell’edificio riprendevano nitidi lo
stile deco,
forse portato in questa terra del Sud dagli emigrati tornati dal centro
Europa o dal nord America che lo avevano reinventato nei colori e nelle forme
meridionali, fino a renderlo
simile a quei dolci locali, fatti di zucchero e chiara d’uovo. La vetrina a tre
ante aveva le cornici di legno intarsiato sovrastate da mascheroni ovali,
allungati – musi grotteschi di animali immaginari. Entrando si era accolti da un
vasto ambiente ombroso, quasi buio, con un alto soffitto oscuro, tutto foderato
di scaffali di legno intagliato con gli stessi morbidi decori floreali: alcuni
ripiani chiusi da vetri, altri suddivisi in cassetti, altri ancora aperti a
mostrare le merci più disparate allineate in disordine fino al soffitto. Al
centro di un lungo bancone a semicerchio, separata e contenuta da una piccola
vetrata, stava una grande cassa di ottone tintinnante: giunta fino a noi da
un’epoca nella quale anche gli oggetti dell’industria erano decorati per
mascherare, pudicamente, l’essenzialità del loro uso, la loro
“modernità”.
Chi
fosse entrato nel negozio una trentina di anni fa, vi avrebbe trovato un uomo
bello e gentile, di una età indefinibile tra i 30 e i 40 anni e, seminascosta
dietro la cassa imponente, una
vecchia con i capelli bianchi, tutta vestita di nero, piccola piccola e sempre
sorridente che, nonostante l’età apparentemente veneranda, riconosceva tutti e
non sbagliava mai nel dare il resto ai clienti e che avrebbe occupato il suo
posto nella bottega quasi fino al
giorno della sua morte.
L’uomo
era il proprietario del negozio, Andrea; la donna era sua madre. Li univa,
palpabile, un legame
di affettuosa e intima consuetudine che, se non li si conosceva, faceva
pensare che lui fosse scapolo e
che i due condividessero, oltre alla comunanza tra le mura del negozio e la
consonanza nel lavoro, anche il resto della loro vita.
Come
recitava una insegna appesa fuori, con le lettere incise su una grande lastra di
metallo, il negozio era stato fondato nel 1920 dai fratelli Scoppetta ed era
giunto ad Andrea dal padre, ormai morto da molti anni.
Probabilmente
era stato lui il principale artefice della ricchezza della famiglia: interi
palazzi nel centro della
cittadina, terreni nelle fertili campagne circostanti, e soprattutto
l’ampliamento della bellissima casa di famiglia, che - all’inizio degli anni
Trenta - si era aggiunto come una propaggine alla più antica e severa residenza
originaria. Era un prolungamento leggero, che si appoggiava ad un lato
dell’edificio quadrato e ne proseguiva la facciata
con una lunga e ariosa vetrata liberty affacciata
su un giardino pensile dove crescevano oleandri e
palme sottili e dal quale si dominava la valle fino al
mare.
La
mamma di Andrea era ricordata da tutti come una donna buona e generosa, e lui,
fin dal sorriso aperto e disarmante, le somigliava e da lei aveva ereditato
l’umanità e quel disinteresse aristocratico verso i soldi – e verso il suo
stesso mestiere di commerciante – che lo rendevano affascinante ed anomalo,
quasi fuori posto in quel luogo e in quel mestiere.
Per
molto tempo nel negozio si erano venduti soprattutto articoli di ferramenta:
strumenti di lavoro, chiodi, viti, candele, vernici, scale, lampadine, solventi.
C’erano però anche i casalinghi: pentole, piatti, bilance di ottone, vasi di
coccio e di vetro con il tappo per conservare i cibi, bicchieri, qualche
lampada, posate. Un assortimento dimesso ed essenziale, per una clientela che –
negli anni Sessanta – era formata in larga parte dai contadini poveri che
arrivavano dalle campagne circostanti nella piccola città – da sempre punto di
passaggio delle merci – per acquistare le poche, indispensabili cose necessarie
al lavoro e alla vita domestica.
Poi,
man mano che anche lì era giunto il turismo, portando
benessere e perfino qualche ricchezza, gli oggetti erano diventati più
raffinati e il negozio aveva cominciato ad allineare sui suoi ripiani, accanto
ai vecchi e modesti oggetti di uso comune, articoli più importanti:
porcellane di Limoges, cristalli di Boemia, tazzine da the inglesi e
bavaresi, eleganti servizi di stoviglie pregiate per i regali di nozze. E visto
che erano sempre più numerosi i turisti che compravano lì una casa per le
vacanze, si erano aggiunte anche lucide maniglie d’ottone con i loro battenti a
forma di sfinge o di testa di leone per i portoni delle antiche case restaurate,
lampade e lumi di metallo brunito o di legno anticato, attaccapanni, qualche
mobiletto.
Ma
Andrea era rimasto quello di sempre.
Se
si aveva bisogno di un martello o di un cacciavite, lui spariva nei bui meandri
del negozio a cercarlo e, una volta trovato lo strumento richiesto dal cliente,
quasi sempre gli si rivolgeva dicendo: “Ma no, non ve lo comprate, se vi serve,
ve lo presto, voi ci fate quello che ci dovete fare e poi me lo riportate”.
Oppure, senza neanche mettersi alla ricerca dell’oggetto: “Si, ce l’ho, ma non è
buono. Andate da Trotta”, che era il proprietario dell’altro negozio di
ferramenta del paese e avrebbe dovuto essere il suo rivale.
Si
raccontava che una volta una signora del paese, che aveva in programma una cena
con tante persone e si era accorta di non avere un contenitore abbastanza grande
per la pasta, era andata da lui per comprare un piatto da portata. Andrea le
aveva fatto vedere il suo assortimento, ma erano tutti pezzi importanti e il più
economico dei quali costava più di centomila lire. La signora aveva detto che
non voleva (o non poteva) spendere tanto per una cena e lui, allora, le aveva
proposto: “Prendetelo e usatelo. Poi lo lavate e me lo riportate: tanto vi
conosco…”.
Ogni
tanto, sugli scaffali o in vetrina, comparivano vecchi oggetti che stridevano
con il nitore delle altre merci:
borse di paglia rosse da una parte e rosa dall’altra, dove la luce le
aveva scolorite; cartoline illustrate in bianco e nero, che mostravano le case
sul mare com’erano cinquant’anni fa,
prima del boom turistico; cappelli da spiaggia un po’ storti, che
portavano impressi i segni del tempo passato; borse da mare di plastica antica,
deformate ed ingiallite. Tutti fondi di magazzino che Andrea ritrovava per caso,
in qualche angolo inesplorato del grande locale, e che gli sembravano ancora
belli e vendibili. Immancabilmente questi oggetti (tranne, naturalmente, le
cartoline) costavano 5.000 lire, anche se non ne valevano neppure 1.000. Un
prezzo che però non era dettato da avidità di commerciante. Andrea considerava
affascinanti quelle vecchie cose nobilitate dal tempo: lui stesso le avrebbe
comprate ed indossate volentieri e pensava che avrebbero
potuto trovare un amatore, magari qualche collezionista. Le esponeva
perciò con una soddisfazione un po’ infantile, attaccandole ad uno dei ganci che
pendevano dal soffitto del negozio.
Del
resto, la sua indifferenza per il
denaro era dimostrata dal fatto che sempre, al momento di pagare, senza che il
cliente ne facesse richiesta, era lui, di sua iniziativa, a fare lo sconto,
arrotondando il prezzo con la sua grazia ritrosa e
sorridente.
E
sembrava che tutta la sua vita fosse racchiusa nelle quattro mura del
negozio.
Invece,
a poco a poco, si veniva a sapere che Andrea aveva molti altri interessi e una
moglie.
Innanzitutto,
era un grande pescatore subacqueo, ammirato e conosciuto lungo tutta la costa
(anche Gian Paolo Nitti lo stimava e qualche volta andava a pesca con lui), che
aveva insegnato – nel suo modo timido, con la sua aria modesta - le tecniche di
pesca a molti giovani del paese che lo consideravano un maestro. Malgrado il suo
aspetto fragile e nonostante il fatto che, da ragazzo, avesse avuto un grave
incidente di cui portava ancora le vaste cicatrici sul petto, andava a pesca da
solo ed era capace di scendere in apnea fino a 15-20 metri, con una attrezzatura che
negli ultimi anni era migliorata ma che, per molto tempo, era stata simile agli oggetti polverosi che tirava fuori
dai suoi magazzini: maschere e boccagli di forma antiquata che risalivano agli
anni Sessanta, mute slabbrate accomodate con lo scotch, pinne macerate
dall’intenso uso, coltelli affilati che riponeva con cura in custodie ricavate
da vecchi scampoli di tela cerata e che allacciava fortunosamente alle gambe con
pezzi di elastico. Il tutto, racchiuso ordinatamente in una di quelle sacche di
vecchia plastica rinsecchita che proponeva in vendita alla sua clientela. Ma
conosceva meglio di chiunque altro i fondali della costa e le abitudini dei
pesci: sapeva dov’erano le tane delle cernie e delle murene e quali erano il
modo e il tempo migliori per catturarle;
e dalle sue cacce non tornava mai a mani vuote.
Poi,
nella stagione morta, quando la clientela si faceva più rara, chiudeva il
negozio e, con sua moglie Rosa, faceva lunghi viaggi in paesi lontani ed
esotici, per conoscere posti nuovi (e nuovi fondali marini).
Rosa
era più giovane di Andrea. Aveva il volto affilato simile a quello di un
uccello, grandi occhi neri ed un corpo sinuoso, insieme esile e femminile. La
sua famiglia era emigrata in Venezuela quando lei era piccola, ma periodicamente
tornava nel paese natio. Ancora bambina, si era invaghita di lui – erano lontani
parenti – e quando, ormai adulta, aveva deciso di rimanere in Italia,
quell’amore infantile si era rafforzato ed infine era stato coronato dalle
nozze.
Dopo
il matrimonio si erano costruiti una villetta, nella stessa strada in cui stava
la grande casa avita che era toccata in eredità al fratello (professionista in
una città del Nord). La loro abitazione era assai più modesta: un solo
piano, un piccolo giardino sul
quale si apriva un vasto soggiorno dalle finestre enormi che davano all’edificio
le fattezze di un insetto dai grandi occhi o quelle di certi pesci dal muso
sporgente e lo rendevano bizzarro, sproporzionato, come un volto
dall’espressione perennemente stupita.
Pure,
quelle finestre, avevano una ragione e dunque una storia. Fatte con il legno dei
castagni che crescevano rigogliosi alle spalle del paese,
esistevano prima della casa: infatti, il padre di Andrea, tanti anni
prima, le aveva commissionate ad
un artigiano di quelli di una volta e poi le aveva messe da parte (forse in uno
dei suoi tanti magazzini), pensando che un giorno o l’altro avrebbero potuto
essere utilizzate. Erano finestre bellissime, come non se ne trovavano più e
Andrea, infischiandosene delle proporzioni, aveva adattato la casa a quegli
infissi: insomma, l’aveva fatta crescere intorno alle finestre.
Rosa
e Andrea non avevano avuto figli. Come spesso accade in questi casi erano una
coppia unita e solidale e, dopo trent’anni, si amavano ancora
teneramente.
Dopo
la morte della suocera, di
pomeriggio Rosa raggiungeva il
marito in negozio: gli dava una mano e intanto gli faceva compagnia.
Questa
vita tranquilla, sentimenti saldi e sicurezze quotidiane, si era spezzata
all’improvviso quando Rosa aveva
scoperto di avere un tumore. Era cominciata allora quella dolorosa odissea che
si accompagna alla malattia:
operazioni, chemioterapie, miglioramenti e peggioramenti, ricoveri e
ritorni a casa con l’illusione di essere guarita, per poi ricominciare da capo
con tutta la trafila. E Andrea sembrava patire la infermità della moglie sulla
sua pelle, come se il malato fosse lui. Quando – in un ospedale del Nord – le
era stata fatta la diagnosi di un “male incurabile”, era stato lui a piangere e
a disperarsi; ed era stata lei a doverlo confortare e sostenere – come
raccontava lei con tenerezza protettiva.
Tornati
a casa dopo il primo ciclo di cure, si erano mostrati più uniti di prima. Lei
gli era sempre accanto e lui la guardava con amore, quasi come temesse di non
vederla più, di perderla all’improvviso. Invece la malattia si prolungava,
mentre le speranze di guarire diminuivano. Rosa era condannata. E in molti
pensavano che Andrea non ce l’avrebbe fatta a sopravviverle, e che sarebbe morto
anche lui.
La
sua sola distrazione, la sua unica passione oltre la moglie, rimaneva la pesca.
E ci andava da solo, all’alba, cominciando fin dalla primavera, quando
l’aria tersa e serena già vibrava
dei colori dell’estate vicina e preannunciava il primo caldo, le lunghe giornate
assolate.
Una
mattina era uscito prestissimo, che appena albeggiava, mentre Rosa dormiva.
Voleva portarle del pesce per il pranzo: lei si doveva
nutrire, aveva bisogno di mangiare cibi genuini e saporiti, perchè – già
magra – ora si era fatta pallida ed emaciata mentre avrebbe avuto bisogno di
tutte le sue forze per combattere la malattia.
Quando
lei si era svegliata, lui non c’era e alle 9 non era ancora
tornato.
Un
ragazzo, amico e allievo di Andrea,
che conosceva anche lui i punti più pescosi della costa e che era andato
a pescare in una caletta, aveva
visto galleggiare qualcosa nell’acqua limpida: era una pinna. Sotto, incastrato
tra le rocce, c’era il corpo ormai senza vita di Andrea. Si disse che forse si
era spinto troppo a fondo per inseguire una preda ed era rimasto imprigionato:
quando aveva provato a risalire,
l’angoscia di non farcela a liberarsi l’aveva privato del suo sangue
freddo, bloccandolo sul fondo. Si parlò anche di un malore: lui non era mai
stato spericolato, ma ormai aveva ormai più di 60 anni – un’età che consigliava
la prudenza. Ma la verità non la conosceva nessuno: solo congetture, ipotesi,
fantasie. Si disse perfino che quella fine se la fosse cercata, per non dover
assistere alla morte di Rosa, per non essere costretto a vivere senza di
lei.
Ma
come dirlo a lei? Chi le avrebbe dato la notizia?
Quando
Rosa si vide comparire davanti la sorella, accompagnata da alcuni giovani, ad
un’ora insolita e con il viso cupo e addolorato, capì che era successo qualcosa
di grave e pensò subito ad Andrea. E indovinò prima ancora che qualcuno
parlasse. Restò muta, incredula, impietrita. E tutti pensarono che quella
perdita l’avrebbe uccisa.
Al
funerale lei era in prima fila, inebetita, disfatta dalle lacrime. E la chiesa
era piena. Tutto il paese – e anche molti villeggianti – avevano voluto salutare
Andrea per l’ultima volta, ricordare l’uomo gentile, la sua dignità, i suoi
insegnamenti, la sua finezza. Era anche un modo di star vicini a Rosa, di farle
sentire che non era sola, che il suo dolore era condiviso da tanti: anche se non
avevano figli, molti giovani avevano trovato in lui un modello paterno, un
esempio da imitare. E gli avevano
voluto bene, come altri avevano trovato in lei – che era maestra – una dolce
presenza quotidiana.
Per
qualche giorno il negozio rimase chiuso, le serrande abbassate. In
lutto.
Poi,
sorprendentemente, venne riaperto e Rosa era lì, seduta su una poltroncina,
troppo stanca e malata per lavorare, ma presente. A chi entrava per salutarla,
diceva che non poteva credere che Andrea non ci fosse più; che quando stava lì
dentro, si aspettava di vederlo arrivare sorridente dal retro bottega – e forse
ci sperava.
I
mesi passavano, Rosa stava sempre peggio: ma la vita non voleva abbandonarla.
Contro ogni previsione, contro i suoi stessi desideri, lei continuava a vivere.
Un
anno sarebbe passato prima che – lentamente, proprio come una candela che si va
consumando piano piano – anche Rosa
si spegnesse.
Ancora
una volta, dopo il suo funerale, il negozio venne riaperto: se ne occupavano
i parenti, per smaltire tutta
quella merce che si era accumulata in quasi un secolo. Gli scaffali si andavano
svuotando, come le vetrine. E si diceva che lo avrebbero venduto, perché nessuno
di loro era commerciante, a nessuno interessava proseguire l’attività che aveva
impegnato la famiglia Scoppetta per più di due generazioni. Anche la bottega,
dunque, era condannata a morte.
Ma
se i morti vengono seppelliti e si fanno polvere, che cosa sarebbe accaduto di
quel luogo? Sarebbe stato conservato, con il rispetto che si deve al passato,
oppure sarebbe stato distrutto dai nuovi acquirenti, trasformato in una pizzeria
o in un fast food, come volevano le leggi del mercato e le mode?
Certo,
un negozio non è una chiesa, non è un palazzo antico, a proteggere i quali
possono intervenire le istituzioni, per impedirne la rovina o la distruzione.
Eppure, la memoria di un paese e la storia della sua gente, spesso, sono
racchiuse anche – e forse più tenacemente – in posti come quello, che sono stati
animati dalla vita di tanti uomini e abitati dalle consuetudini quotidiane.
Quel
negozio merita rispetto e attenzione: come se fosse un monumento – o una
persona. Anche se non è fatto di carne e sangue, pure, è un concentrato di
ricordi e di vite vissute.
E
forse dietro al bancone, o in fondo, nel buio dei grandi e misteriosi
magazzini, aleggia ancora lo
spirito di Andrea. Come ha creduto e sperato Rosa, fino alla fine.
Sandra
Puccini
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