- Da marateaclub.com -
Delitto e castigo nella Maratea nel 1889
"Contrariamente
a quel che si potrebbe credere popolarmente, lo studio della Storia non
consiste nel mettere in fila in fatti accaduti in un determinato luogo
in un lasso di tempo più o meno lungo. La storiografia semmai è la
ricerca dei meccanismi che hanno portato alle trasformazioni sociali ed
economiche di una comunità o di un popolo.
Tuttavia, talvolta lo storico scova in un evento che da solo affascina o
che, proprio perché contrario alla quotidianità di una realtà, stuzzica
la nostra curiosità.
È di uno di questi che scrivo oggi: il caso dell’omicidio del maestro Adinolfi.
Il fatto.
Maratea, giovedì 24 gennaio 1889.
Intorno mezzanotte una pattuglia dei Reali Carabinieri si imbatté in un
cadavere. Era quello di Emidio Adinolfi. In paese tutti lo conoscevano:
era un maestro di scuola elementare.
La moderna scuola elementare comunale di Maratea venne aperta nel 1862,
ma soltanto dall’anno scolastico 1888/1889 si ebbe l’obbligo di
frequenza. Il conseguente aumento degli scolari obbligò il Comune –
all’epoca gestore dell’istituzione – ad assumere nuovi maestri, per cui
si dovettero prendere anche insegnanti forestieri. Fu il caso di
Adinolfi, nativo di Fratte di Salerno.
Adinolfi arrivò a Maratea ventinovenne. Poteva essere un bell’uomo,
forse un dongiovanni… di certo era un ottimo partito per le giovanette
marateote, considerando lo stipendio fisso…!
Proprio questo parve subito il movente del suo assassinio. In Maratea subito si sparse questa sensazione: «Giovane e intelligente, buono, generoso e simpatico – si legge in un giornale dell’epoca – fu vittima di imprudenze giovanili, per cui fu trascinato a facili amori, i quali […] scoppiarono contro di lui in odio feroce».
La sera stessa del rinvenimento del corpo, i Carabinieri arrestarono
un’intera famiglia. Intanto la comunità gli diede l’ultimo saluto: «La cittadinanza di Maratea, – si legge nello stesso articolo – per
solito non abituata a delitti di sangue, commossa dallo spaventevole
avvenimento, accompagnò all’ultima dimora, insieme con l’autorità e la
banda musicale, la salma del povero giovane, a cui era riserbata una
fine così orribile, per quanto impreveduta!».
Poco dopo il suo arrivo a Maratea,
Adinolfi si fidanzò con una ragazza del paese, una certa Caterina Di
Puglia. Questo fidanzamento venne poi rotto e il maestro ne contrasse un
altro con Marianna Lammoglia.
Il fatto che il cadavere venne trovato di fronte la casa dei Di Puglia
sembrava una prova schiacciante. Caterina, che già aveva dato pubbliche
scene di gelosia, aveva forse ucciso l’amato in un raptus. Ma si capì
ben presto che le cose non stavano così.
Marianna Lammoglia sembra non fosse quella che possiamo definire come
una ragazza virtuosa. Nel dibattimento emerse che Adinolfi stava per
rompere anche il fidanzamento con lei, poiché aveva avuto prova che
Marianna lo tradiva con alcuni dei suoi stessi scolari! (La cosa non
deve sorprenderci perché nel XIX secolo le elementari potevano essere
frequentate anche da ragazzi più grandi di quelli a cui siamo abituati
oggi).
Ne erano nati litigi e frizioni con la famiglia di lei. Marianna lo aveva anche minacciato più volte.
La sera del 24 gennaio Adinolfi era stato invitato a casa Lammoglia. Lì venne pugnalato all’inguine.
Processo e condanne.
«Accusati Biagio Lammoglia, – si legge nel sunto della sentenza –
padre della Marianna, costei e le due sue sorelle, Francesca e
Serafina, quest’ultima addossò tutta la responsabilità sulla Francesca,
che, sorridendo, se l’assunse. Ma la voce pubblica e la stessa accusata
esclusero affatto la colpabilità della Francesca, come pure l’escluse il
verdetto dei giurati, negativo anche a riguardo del padre, e
affermativo per le altre due […]. Interessante fu il dibattito
sulle aggravanti e sulle scuse. Erano in discussione la prodizione,
perché l’Adinolfi sarebbe stato invitato con un biglietto della Marianna
a recarsi in casa […], la premeditazione, la forza
semi-irresistibile, desunta dal fatto che l’Adinolfi aveva promesso alla
Marianna, dopo coltone il fiore verginale, di farla sua sposa; la grave
provocazione, nell’ipotesi che l’ucciso si fosse recato dalla Marianna
non come amico, ma come nemico: tutte questioni eleganti, e tali da
appassionare il giurista più del fatto in sé, uno dei soliti drammi
della gelosia, dove Marianna, secondochè [sic] disse uno degli avvocati difensori, fa la figura della Traviata, con la differenza che questa muore ed essa uccide».
Francesca e Serafina furono le uniche condannate. La pena fu di 15 anni di lavori forzati.
Come al giurista, allo storico più del fatto in sé interessa la maniera in cui il tutto venne raccontato: “normalizzato” l’omicidio quale caso di gelosia, l’opinione pubblica poteva continuare la sua quotidianità, senza domandarsi quanto la pruderie ottocentesca pesasse sulla società e che risvolti avesse sulla vita delle donne".
Povero giovane, maestro Adinolfi !
RispondiEliminaCaro Luca,
Ti rinnovo il mio apprezzamento per le Tue ricerche e per questo blog.
Non conoscevo questo grave caso di violenza che hai riportato...alla luce.
Mi piacerebbe, comunque, poter leggere, in calce ai Tuoi scritti, anche i relativi riferimenti bibliografici e le relative fonti.
Congratulazioni e buon lavoro !
Emanuele Labanchi