Indro Montanelli |
Per Silvio Berlusconi o con probabile, maggiore simpatia per Matteo Salvini...?
-"Dai giornali" in http://www.calderano.it/ -
L’ALLERGIA ALLA VERITÀ
di Indro
Montanelli – Corriere, 4/15 settembre 1957
Fra le tante domande d’impiego
agli stabilimenti Rivetti, vidi quella di un giovanotto che si dichiarava
– e lo comprovava allegando i relativi documenti – “maestro
alimentare”. Costui, come tanti altri suoi colleghi, chiedeva di essere assunto
in fabbrica perché ancora non aveva avuto una cattedra da cui “alimentare”
altri ragazzi, che sarebbero cresciuti anch’essi per fare i maestri e
perpetuare così, di generazione in generazione,
l’ignoranza della lingua italiana. Ogni anno, nel periodo degli esami, si fa un
gran discutere, da noi, sui metodi in uso nelle nostre scuole, alcuni
lamentandone la mitezza, altri la severità. A voler
raccogliere tutti gli articoli che sono stati scritti e si seguiva a scrivere in proposito, c’è da trovarvi conforto per ogni tesi
e ispirazione per ogni riforma. Ma nessuno ha ancora
detto, o almeno a me non è capitato di leggere, la cosa fondamentale: e cioè
che, dopo tante palingenesi da Gentile in giù, dopo tanti riordinamenti, dopo
tante leggi, e dopo tante deroghe che le annullano (“in via”, s’intende,
“assolutamente eccezionale”), “la scuola”, in Italia, seguita a non esistere;
vi esistono soltanto “le scuole”. Tant’è vero che i maestri a
cui esse sono affidate sono “elementari” in qualche posto, ma
“alimentari” in molti altri. Trattare questi e quelli con gli stessi stipendi
equivale a fare dei primi delle vittime, e dei secondi dei ladri.
IL GROSSO OSTACOLO
Qualcuno dice che tutto il
problema del Mezzogiorno, essendo condizionato da un’opera di bonifica umana,
dipende esclusivamente dalla scuola. Come figlio di professore, mi piacerebbe
di crederlo; ma non ci riesco. Tuttavia, anche a non volersi impegnare su quell’ “esclusivamente”, m’è bastato ficcare il naso in
certi paesetti della Lucania e della Calabria per rendermi conto che questa
mancanza, non di cultura, ma di educazione, è il primo e il più grosso ostacolo
che si para di fronte a qualunque iniziativa di riscatto del Sud. Con esso deve
vedersela non soltanto il capitalista settentrionale, che trovi il coraggio (ce
ne vuole) d’impiantare quaggiù un’industria; ma anche il povero giornalista
che, con inopportuno zelo, cerchi d’incoraggiarvelo e di spiegare ai lettori
del Nord perché questa impresa sia così necessaria e nello stesso tempo così
difficile. Naturalmente, per farlo, non c’è che un mezzo: riferire con
esattezza come stanno le cose, o almeno come sono apparse ai nostri occhi, in
tutta la loro desolazione, in tutta la loro tragicità e in tutta la loro
comicità. Ma qui appunto cominciano i guai. Queste
terre del sole amano l’ombra. I portoni delle case ospitalmente si aprono al
forestiero, ma i contatti con gli inquilini obbediscono a complicate liturgie
che li rendono puramente formali ed escludono qualunque intimità e confidenza.
Se si potesse industrializzare i segreti, l’Italia del Sud sarebbe il più ricco
angolo d’Europa. Ma essi giacciono sepolti in case
chiuse come fortezze, e qualcosa ne trapela solo nei confessionali e negli
studi dei notai.
Per capire una briciola, da cui
si possa ricostruire il costume di questa gente, bisogna affidarsi, più che
alle proprie capacità d’indagine, all’intuito. La povertà viene
nascosta per scrupolo di decoro; la ricchezza, per paura del fisco. Ma cosa non
viene nascosto, nel Sud? Tutto: anche la bontà. Un mio amico meridionale intelligente e spregiudicato (ce ne
sono a bizzeffe) mi diceva che, per vivere in questi paesi e barcamenarvisi tra
le beghe, le complicità e le clientele, ci vuole un cervello elettronico,
capace di dosare al millimetro la parola, il gesto, lo sguardo. E’ questo
tirocinio di sottilissima diplomazia quotidiana – con le autorità, con
gli amici, coi nemici, e perfino con la moglie e coi
figli – ciò che fa del meridionale il meglio qualificato (…). Da quale
passato di malgoverno, da quanti secoli di arbitrii, di favoritismi e di
soprusi, derivi tutto questo, è facile capire, e nessuno pretende conteggiarlo
nel passivo delle vittime. Ma il risultato è quello che è: una
incapacità di fiducia e di solidarietà, una mancanza di civismo, insomma
una totale maleducazione collettiva. Uno dei primi frutti di questa
maleducazione è l’allergia alla verità. Io non so se son cascato male nella
scelta; ma il fatto si è che in tutto quello che mi è capitato di leggere sulla
questione meridionale il mio naso ha avvertito un insopportabile fetore
d’ipocrisia.
Solo Giustino Fortunato –
appunto perché era un gran signore – ha parlato chiaro e ha denunziato
con sincerità i difetti umani del Sud, di cui era figlio. A parte il suo, non
c’è stato finora nessun tentativo di dialogo fra questi due tronconi dello
stesso Paese. I settentrionali, o tacciono con disprezzo considerando il Sud una irredimibile disgrazia da tollerare sforzandosi
d’ignorarla, o ne discorrono con timorata reticenza. Quanto ai meridionali,
essi si dibattono in questa eterna contraddizione: da una parte piangono
miseria, dall’altra vedono un calunniatore in chiunque venga a constatarla e la denunzi. A scrivere che non è più
ammissibile che nella maggior parte dei paesi di Calabria le donne debbano
ancora attingere acqua alla fonte con l’anfora in
testa, non ti ringraziano di aver auspicato l’acquedotto, ma ti rinfacciano di
aver dimenticato che in quelle anfore c’è una “civiltà trimillenaria”.
Perchè a complicar le cose
c’è anche questa retorica dei millenni cui pagar pedaggio ad ogni frase.
Pronunciare un nome, equivale a farsi non uno, ma
molti nemici: l’interessato, il quale troverà che non hai parlato di lui
abbastanza bene, e tutti coloro che lo conoscono, i quali troveranno che non ne
ha parlato abbastanza male. Tutti insieme, essi ti
attribuiranno chissà che maliziose intenzioni e interessati calcoli. In ogni “citazione”, e in ogni abbozzo di diagnosi un attentato
alla dignità. Tempo fa un settimanale romano indisse un “referendum”,
invitando i lettori settentrionali a dire che cosa pensavano dei meridionali, e
viceversa. Il direttore rimase sbigottito alla violenza delle risposte che
giunsero da una parte e dall’altra. Ecco a che cosa ha approdato questa
mancanza di franchezza, da ambedue le parti: a incancrenire la piaga, ad
avvelenare i reciproci rancori e a fomentare i “complessi”. Quando un
settentrionale parla in pubblico dei meridionali, ne loda l’intelligenza, lo
spirito, le canzoni e la “filosofia”. E quando un avvocato meridionale viene a
difendere una causa a Milano, debutta immancabilmente con un tributo alla
“operosa e nobile città che giustamente si fregia del titolo di capitale
morale”. Ma sotto queste frasi convenzionali e balorde c’è ben altro. C’è la convinzione del Nord di essere impoverito dal Sud, e c’è la convinzione del Sud di essere affamato dal Nord, dopo cent’anni di unità siamo ancora qui.
morale”. Ma sotto queste frasi convenzionali e balorde c’è ben altro. C’è la convinzione del Nord di essere impoverito dal Sud, e c’è la convinzione del Sud di essere affamato dal Nord, dopo cent’anni di unità siamo ancora qui.
IMPRESA NECESSARIA
Anche di questo imbroglio, il
malgoverno della scuola ha senza dubbio le responsabilità maggiori. E non
soltanto perché i maestri “alimentari” difettano d’istruzione. La diffidenza,
il sospetto, la segretezza, l’ambiguità sono, più che
giustificati, obbligatori, in un insegnante che deve anzitutto nascondere agli
allievi l’ignoranza di ciò che insegna. Sulla cattedra, egli costituisce agli
occhi della scolaresca, la vivente riprova che la raccomandazione conta più
della grammatica, che l’amicizia dell’ispettore è più importante dell’alfabeto
e che, zitti zitti, piano piano, un diploma di
abilitazione si può strappare anche in barba alla sintassi. La refrattarietà
alla schiettezza, il terrore della sincerità, trovano
la loro incubatrice in queste aule scolastiche, dominate dalla volontà di
eludere i problemi, a cominciare da quelli della ortografia. La loro paura
della verità che è poi la paura della vita, è documentata dalla loro
ripugnanza alla natura. In questo paese del sole i caffè sono più affollati che
in Finlandia, le spiagge deserte, i cani randagi, i boschi alla mercè delle capre che non ne hanno nessuna.
Non dappertutto il contadino è
nell’impossibilità di vivere sul fondo perché vi mancano la strada e l’acqua.
Anche là dove queste condizioni esistono, egli si rifiuta di starsene
isolato sulla terra, la cui “verità” lo spaventa. L’aria aperta, gli alberi,
gli animali non lo attirano. Preferisce l’alveare del villaggio sovrappopolato
perché vi si sente protetto da mille complicità. Invece che all’iniziativa, si
affida più volentieri alla diplomazia, cioè ancora una volta alle
bugie. Dico tutto questo senza malanimo, arciconvinto come sono che il
riscatto del Sud sia una impresa non solo necessaria,
ma anche redditizia, purchè sia avviata al di fuori
delle solite menzogne convenzionali e dell’uggiosa retorica di cui son condite.
Bene o male, è il Nord che deve fornire i capitali e i tecnici per realizzarla,
sia che lo faccia – come speriamo –
attraverso la sua iniziativa privata, sia che lo faccia – come temiamo
– attraverso lo Stato. Esso ha bene il diritto di sapere come stanno le
cose, prima di affondarci le mani. E il Sud, se vuol curare i suoi malanni, non
confonda il medico col denigratore e la diagnosi con la calunnia. L’educazione
dei meridionali dovrebbe mirare solo a questo: ad affezionarli alla verità, a
liberarli dalla paura. Ma, certo, finchè sarà
lasciata in appalto ai maestri “alimentari”…
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