‘NON DOVREI ESSERE PIÙ UN ‘FINE PENA MAI’, SONO SOLO UN ERGASTOLANO CHE
ASPETTA’
Filippo Rigano*
Sono un ergastolano “ostativo” che alberga ininterrottamente nelle patrie galere dal 1993 del secolo scorso. Eh sì, perché bisogna fare i conti anche con il tempo che macina gli anni della vita fino alla vecchiaia, e alla morte. Quando ho varcato le porte del carcere, di anni ne avevo 36, oggi ne ho 68. Sapevo a malapena leggere e scrivere, come titolo di studio avevo soltanto la seconda elementare. Il 23 ottobre 2019, nel teatro del carcere di Rebibbia, sono riuscito a laurearmi in giurisprudenza con lode dell’Università di Tor Vergata. Ho dimostrato progressi nello studio, nel lavoro, nel senso critico del passato per cui sto scontando la mia pena. Nonostante ciò non riesco a respirare neanche un’ora di libertà. Per la legge non dovrei essere più un “ergastolano ostativo”, un “fine pena mai”. Come tanti altri, sono un ergastolano che aspetta.
Nel carcere di Rebibbia, nella sezione di alta sicurezza, il magistrato e il
tribunale di sorveglianza non concedono benefici penitenziari da anni. Nessun detenuto
riesce a ottenere un permesso premio o la semilibertà. Io ho presentato istanza
di permesso nel lontano giugno 2020, dopo 31 anni di detenzione.
Il magistrato ha deciso e notificato il rigetto il 7 luglio 2024, dopo quattro
anni e due mesi dalla richiesta e tanti solleciti.
La direzione distrettuale antimafia (DDA) aveva espresso parere contrario con
le solite frasi. La cosca è ancora attiva. Si può dedurre che sia ancora
legato. Essendo libero potrebbe riorganizzare. Non si esclude il pericolo di
ripristino dei collegamenti… Un parere negativo privo di ogni profilo di
attualità e senza tener conto del percorso rieducativo intrapreso nei
lunghissimi anni di carcerazione. I giudici si accodano e rigettano. La stessa
decisione ha preso il tribunale di sorveglianza di Roma. Addirittura criticando
pure l’area educativa che aveva stilato una “relazione di sintesi” positiva.
Oltretutto, con questo orientamento: se la persona detenuta non viene
declassificata dal circuito di alta sicurezza a quello di media sicurezza, non
gli spetta niente, deve solo aspettare. E siccome non declassificano mai
nessuno, tu non esci mai.
Capisco la portata del fenomeno mediatico nel caso in cui un ergastolano, dopo
aver scontato quarant’anni di carcere, esce grazie a un beneficio premiale. I
mezzi di informazione amplificano alcune voci presenti nella società e
scatenano un putiferio per la decisione del giudice di turno, e danno vita a
una campagna di disinformazione con la quale alimentano paura e in sicurezza
tra la gente. Allora, i giudici di sorveglianza non concedono nulla e,
probabilmente, lo fanno per non creare precedenti, ma facendo così creano un
danno all’individuo e al diritto. Così, l’articolo 27, comma tre, della
Costituzione va a farsi benedire.
Io ho rivisitato completamente il mio vissuto. Ho fatto tutto per dimostrarlo,
ho trovato il coraggio di prendere le distanze da quel passato buio, dalle
vecchie logiche e da qualsiasi forma di criminalità. La logica imporrebbe la
necessità di valutare la persona per quello che è oggi e non per quello che è
stato ai tempi delle sue azioni. La persona nuova che è divenuta, è conosciuta
dall’equipe trattamentale dell’Istituto, non dalla DDA che conosce semmai
quella di trent’anni addietro, e pensa sia sempre la stessa. Se i magistrati e
i tribunali di sorveglianza non concedono benefici a detenuti con sintesi
trattamentali positive fatte da tutti gli operatori carcerari, si registra un
vero fallimento del reinserimento nella vita sociale del detenuto, ma
soprattutto un fallimento costituzionale, quello della funzione rieducativa
della pena. Questo succede perché non si crede fino in fondo alla rieducazione
del condannato. Bisogna credere invece alla rieducazione e avere mo lto più
coraggio nel dare fiducia e credito all’individuo che abbia dimostrato nella
pena un radicale cambiamento nel senso del rispetto delle regole della
Comunità, mettendolo alla prova.
La nostra Costituzione è improntata al principio di umanità e reinserimento
sociale del detenuto. Che senso di umanità dimostra uno Stato che ha in mente
forme punitive eterne. L’eterno non è umano, e una pena eterna non può essere
che disumana. L’assoluto insito nel concetto di perpetuità ci allontana da ciò
che intendiamo con la parola democrazia. La rieducazione non è un termine
vuoto, privo di senso, ma il contenuto di una vita intera della persona
detenuta che nella pena recupera sé stessa, specialmente quando ha capito gli
errori del passato e dal male si è catapultata nel bene.
Ho trascorso 31 anni di vita in carcere per il peso gravoso dei miei reati e
delle condanne riportate, ma nessuno, in nessun tempo, può arrogarsi il diritto
di negare per sempre la libertà al suo prossimo.
* Detenuto nel carcere di Rebibbia
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