DA "IL SOLE 24 ORE”
Italia, il rischio di restare vaso di coccio in Europa
di Sergio Fabbrini
Perché la crisi italiana è preoccupante? Perché aggiunge
l’incertezza interna ad un’incertezza esterna. Se le due incertezze si
combinano, le conseguenze saranno difficili da gestire. Per capirlo, occorre
guardare la crisi italiana dal di fuori. Nell’Europa dell’interdipendenza, le
divisioni interne (tra classi, ceti, regioni e partiti) sono una variabile
dipendente delle fratture esterne (tra i Paesi e i loro modelli di
organizzazione economica ed istituzionale). Interdipendenza significa
esattamente questo. La soluzione per i problemi interni dipende dagli esiti dei
rapporti di forza esterni. Che è come dire che il mondo non coincide con il
nostro ombelico. Prima prendiamo atto di ciò, meglio sarà per noi.
Cominciamo dal contesto esterno. L’Unione europea (Ue), con
il suo mercato interno e la sua cultura dell’integrazione, costituisce la
sorgente della nostra esistenza come Paese moderno. Ciò non significa che essa
debba essere accettata così come è. Le scelte europee sono il risultato di
un’interazione costante tra interessi nazionali ed istituzioni sovranazionali.
Un Paese maturo non si lamenta per la forza degli altri, ma lavora per superare
le proprie debolezze. Perché più in Europa cresce l’incertezza, più le
interazioni tra i Paesi diventano competitive se non conflittuali. Che
l’incertezza avanzerà non vi sono dubbi.
Per il 2019 è prevista una riduzione del tasso di crescita
dell’Eurozona, si faranno sentire le conseguenze negative del protezionismo
selettivo del presidente Trump, la politica monetaria di quantitative easing
perseguita dalla Banca centrale europea è destinata ad una sostanziale
revisione con la nuova presidenza di quella istituzione. Tale incertezza non
potrà favorire processi deliberativi consensuali all’interno dell’Ue. Tant’è
che (già oggi) si sono formate coalizioni di stati per difendere gli interessi
specifici dei loro membri, a prescindere dalle conseguenze sistemiche di tale
azione. I Paesi del nord difendono l’attuale modello di governance economica,
anche se ciò penalizza le economie dei Paesi del sud.
I Paesi dell'est rifiutano l’approccio multilaterale alla
politica migratoria, anche se ciò penalizza i Paesi del sud e dell'ovest. È
vero che l’asse franco-tedesco mantiene una prospettiva europea, ma è anche
vero che i due Paesi, quando sono in gioco cruciali interessi nazionali, non
hanno timori a difenderli. La Germania continua ad opporsi alla nascita di
un’assicurazione comune dei depositi bancari e la Francia non ha dubbi a
perseguire una politica estera che massimizza i propri vantaggi economici.
Certamente, il Parlamento europeo e la Commissione sono impegnati a promuovere
la prospettiva comunitaria (ad esempio, nella negoziazione che si è appena
aperta sul bilancio pluriannuale oppure in quella in corso sull’uscita del
Regno Unito), ma è indubbio che le crisi multiple dell’ultimo decennio abbiano
condotto all’affermazione di una logica intergovernativa che ha ridimensionato
quelle istituzioni.
Se così è, le implicazioni per l’Italia sono evidenti. Senza
un governo efficiente e legittimo, l’Italia ritorna ad essere il vaso di coccio
tra i vasi di ferro dell’interdipendenza europea. Eppure, nel nostro Paese, non
mancano settori della classe dirigente (oltre che corporazioni di vario tipo)
che ritengono che non sia così grave stare senza un governo. Anzi, pensano che
i governi deboli siano utili a preservare i loro interessi forti. Tuttavia,
nessuna democrazia liberale può prosperare senza un governo forte (cioè
efficiente e legittimo). Certamente, come argomentò Herman Finer già nel 1932,
un governo è tanto più forte (sul piano delle capacità strategiche, decisionali
e implementative) quanto più delimitate sono le sue competenze e i suoi poteri.
E comunque solamente i governi forti sono legittimi, perché possono rendere
conto di ciò che hanno o non hanno fatto. Se nessuna democrazia può funzionare
senza un governo efficiente e legittimo, tanto meno può farlo una democrazia
inserita in un sistema di interdipendenze come quello europeo. Dove, appunto,
l’incertezza economica e i suoi costi sono destinati ad accrescere la
competizione tra gli stati (e i rispettivi governi) che fanno parte di quel
sistema.
Non ci voleva un dottorato in Scienza politica per prevedere
che le elezioni del 4 marzo avrebbero prodotto una non-maggioranza di governo.
Né ci vuole una specializzazione nell’analisi del comportamento elettorale per
ipotizzare che nuove elezioni non produrranno un esito molto diverso da quello
delle vecchie elezioni (per non parlare dei costi sociali, economici e politici
che implicherebbero). La sovranità popolare non si esercita in astratto, ma
attraverso precise regole elettorali ed istituzionali. Solamente qualche
nostalgico delle democrazie oligarchiche ottocentesche (e ce ne sono tanti in
Italia) poteva sostenere (come ha sostenuto nella sua battaglia contro la
riforma costituzionale) che i governi nascono dalla libera discussione in
parlamento tra i membri di quest’ultimo. Ma quando mai? Infatti, di libera
discussione, nel nuovo Parlamento, non c’è neppure l’ombra. Mentre c’è uno
stallo che occorre sbloccare, per poter (almeno) sopravvivere
nell’interdipendenza. Naturalmente, si può sempre sperare sulla disponibilità
di qualche partito a dare vita ad un governo sostenuto in Parlamento da chi non
vuole ritornare a casa. Dopo tutto, pur di andare o stare al governo, molto può
essere fatto. Persino cambiare i propri programmi elettorali dopo le elezioni.
Tuttavia, in questo caso avremo sì un governo, ma è assai dubbio che esso potrà
poi governare. Un non-governo che (per di più) soffierebbe vento sulle vele di
chi ne starà fuori. Se così è, per uscire dallo stallo è necessario seguire
un’altra strada. Riconoscendo che siamo in un’emergenza istituzionale che
penalizza il sistema senza avvantaggiare nessuna delle sue componenti.
Per di più, nessuna di queste ultime conosce la soluzione che
potrebbe eventualmente favorirla. John Rawls, in uno studio del 1971, argomentò
che proprio questa è la condizione necessaria per fare le riforme, poiché i
principali attori sono coperti da un velo di ignoranza sulle conseguenze (per
sé stessi) di quelle riforme. In questo caso, si dovrebbe allora dare vita ad
un governo di cui tutti siano responsabili (cosicché nessuno possa giocare allo
scarica-barile sugli altri), sostenuto da un Parlamento impegnato a riformare
le basilari regole elettorali e istituzionali per portarci al voto (e ad un
governo efficiente e legittimo). Insomma, per evitare che l’incertezza esterna
si combini con quella interna, con i relativi effetti difficili da gestire,
occorre guardarci dal di fuori, introducendo le riforme necessarie per
attrezzare il Paese all’interdipendenza europea.
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