lunedì 23 settembre 2019

RITMO D' AUTUNNO


di Federico Garcia Lorca


Amarezza dorata
del paesaggio.
Il cuore ascolta.

Nell’umida tristezza
il vento disse:
«Io sono tutto di stelle liquefatte,
sangue dell’infinito.
Sfiorandoli metto a nudo i colori
dei fondali addormentati.
Me ne vado ferito da mistici sguardi,
e innalzo i sospiri
in bolle di sangue invisibili
verso il sereno trionfo
dell’amore immortale pieno di Notte.

I bambini mi conoscono,
e mi riempio di tristezza.
Per le fiabe di regine e di castelli
sono coppa di luce. Sono turibolo
di canti liberati
che scesero avvolti in azzurre
trasparenze di ritmo.
Nella mia anima si persero
solenni corpo ed anima di Cristo,
e fingo la tristezza della sera
freddo e malinconico.
Il bosco innumerabile.

Porto le caravelle dei sogni
verso l’ignoto.
E ho l’amarezza solitaria
di non sapere la mia fine e il mio destino».

Scaglione-autunno
Le parole del vento erano dolci,
con profondità di gigli.
Il mio cuore si addormentò nella tristezza
del crepuscolo.
Sulla scura terra della steppa
i vermi dissero i loro deliri:

«Sopportiamo tristezze
ai margini della strada.
Sappiamo dei fiori dei boschi,
del canto monocorde dei grilli,
della lira senza corde che pizzichiamo,
del sentiero nascosto che seguiamo.
Il nostro ideale non arriva alle stelle,
è sereno, semplice.
Vorremmo fare miele, come api,
o avere una voce dolce o un grido forte,
o camminare tranquilli sulle erbe,
o come seni allattare i nostri figli.

Beati quelli che nascono farfalle
o hanno luce di luna nel vestito.
Beati quelli che potano la rosa
e raccolgono il grano!
Beati quelli che non temono la morte
perché hanno il Paradiso
e l’aria che corre dietro a ciò che vuole
certa d’infinito!
Beati i gloriosi e i forti,
quelli che mai furono compatiti,
quelli che benedisse e rallegrò trionfante
frate Francesco.
Sopportiamo grande pena
per le strade.
Vorremmo sapere quello che ci dicono
i pioppi del fiume».
Bachelier-silenzio
E nella muta tristezza della sera
rispose loro la polvere della strada:
«Beati voi, vermi, che avete
giusta coscienza di voi stessi,
e forme e passioni
e focolari accesi.
Io mi dissolvo nel sole
seguendo il pellegrino,
e quando penso ormai di restare nella luce
cado a terra addormentata».

I vermi piansero, e gli alberi,
agitando le loro teste pensierose,
dissero: «L’azzurro è impossibile.
Credemmo di raggiungerlo da bambini,
e vorremmo essere come le aquile
ora che siamo colpiti dal fulmine.
L’azzurro è tutto delle aquile».
E l’aquila di lontano:
«No, non è mio!
Perché l’azzurro lo tengono le stelle
nei loro chiari splendori».
E le stelle: «Neanche noi lo abbiamo:
sta nascosto tra di noi».
E la nera distanza: «L’azzurro
lo tiene la speranza nel suo recinto».
E la speranza disse sottovoce
dal suo regno oscuro:
«Voi mi inventaste, cuori».
E il cuore:
«Dio mio!».
Vakulin-autunno
L’autunno ha lasciato senza foglie
i pioppi del fiume.

L’acqua ha addormentato nell’argento vecchio
la polvere della strada.
I vermi scendono sonnolenti
nei loro freddi focolari.
L’aquila si perde sulla montagna;
il vento dice: «Sono ritmo eterno».
Si odono le ninnananne nelle culle povere,
e il pianto del gregge nell’ovile.

La tristezza umida del paesaggio
mostra come un giglio
le rughe severe che lasciarono
gli occhi pensierosi dei secoli.

E mentre riposano le stelle
nell’azzurro addormentato,
il mio cuore vede lontano il suo ideale
e implora:
«Dio mio!
Ma, Dio mio, a chi?
Chi è Dio mio?
Perché la nostra speranza si addormenta
e sentiamo la poetica delusione
e gli occhi si chiudono abbracciando
tutto l’azzurro?

Voglio lanciare il mio grido
sul vecchio paesaggio e il fumante focolare,
piangendo di me come il verme
deplora il suo destino,
e implorando quello dell’uomo, amore immenso
e azzurro come i pioppi del fiume.
Azzurro di cuore e forza,
l’azzurro di me stesso,
che rimetta nelle mie mani la grande chiave
che violi l’infinito,
senza terrore e paura della morte,
brillante d’amore e di poesia
anche se il fulmine mi colpisce come un albero
e mi lascia senza foglie e senza grido.

Ora ho sulla fronte rose bianche
e la coppa che trabocca di vino».

(Garcia Lorca, Poesie)

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