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UN CLERICALISMO GLOBALE?
Di Attilio Tempestini | 30.05.2023
Nelle recenti elezioni turche, la vittoria di Erdogan (in contrasto con sondaggi iniziali) ha mostrato quanto peso la religione abbia ancora, in tale paese. È evidente infatti che nessuna fisionomia più di quella religiosa caratterizza l’AKP -Partito della Giustizia e dello Sviluppo- che sotto la guida di Erdogan si è, nel corso degli anni, mosso in crescente controtendenza rispetto alla laicità dello Stato alla quale, circa un secolo fa, Kemal Atatürk aveva portato il paese. Per tutelare tale laicità vigeva anzi una legge, che vietava l’esistenza di partiti i quali si riferissero ad una religione (divieto con cui, indubbiamente, problemi ne nascono in tema di libertà di associazione): legge della quale non erano mancate applicazioni. Ma Erdogan è riuscito, con un riferimento alla religione inizialmente assai limitato, a non incappare in tale legge.
Peraltro anche in chi ad Erdogan si è contrapposto, non mancano i riferimenti alla religione. Kilicdaroglu ha dichiarato: “La democrazia è mancata a tutti noi. Vedrete, la primavera sta per tornare in questo paese se Dio lo vuole”.
In Turchia dunque non sono più i tempi, di Atatürk. Se poi da un paese a cavallo tra Europa ed Asia, passiamo ad uno dei paesi principali dell’Asia, ecco che in India non sono più i tempi di Gandhi. Del quale nella raccolta di scritti - “Antiche come le montagne” - promossa dall’UNESCO, troviamo soltanto affermazioni di un generico teismo: “per religione non intendo una religione formalista o consuetudinaria, ma quella religione che sta alla base di tutte le religioni e ci porta faccia a faccia con il nostro Creatore”. Oggi, invece, al governo dell’India c’è il Partito Popolare Indiano (BJP) che si caratterizza come espressione dell’induismo e che tale rapporto lo vive in modo aggressivo verso le altre religioni, presenti nel paese; nonché del confinante ed a religione musulmana, Pakistan.
Che dire poi -tornando ad un’Asia, meno distante dall’Europa- di Israele? Non sono più i tempi di un Rabin, che stringeva la mano ad Arafat; una stretta di mano la quale tra i vari significati aveva anche quello di non chiudersi nella propria religione. Qualche anno fa, il governo ha portato ad approvazione una legge di rango costituzionale, che qualifica Israele come Stato ebraico. Oggi poi un governo, dal carattere ancor più confessionale, porta questa qualifica ad esiti particolarmente virulenti.
Bisogna aggiungere però, che neppure sono più i tempi di Arafat e del suo obiettivo di uno Stato multiconfessionale. Il cambiamento maggiore è stato rappresentato da Hamas (confessionale, sin dalla denominazione “Movimento della resistenza islamica”, che sta dietro tale sigla); il quale si è impossessato di una parte del territorio amministrato da quell’Autorità Nazionale della Palestina, un tempo guidata appunto da Arafat.
Se d’altra parte, dopo considerazioni sul filo di “allora… mentre ora”, passiamo semplicemente a cogliere sul mappamondo recenti vicende di rilievo in tema di laicità, è possibile sì trovarne alcune che, per quest’ultima, sono di buon segno. Ecco in Brasile la vittoria di Lula: un colpo d’arresto, per le chiese evangeliche che sostenevano Bolsonaro.
Nell’America settentrionale, però, gli Stati Uniti vedono il partito repubblicano caratterizzarsi sempre più come partito clericale: la principale alternativa a Trump è, per il momento, un De Santis il quale ad esempio ritiene di vietare che si parli, nelle scuole, di temi come l’orientamento sessuale.
Infine, ecco l’Italia. Poco tempo fa un ministro ha fatto discorsi che rimandano a quell’Ungheria, dove il governo afferma che va difesa la cristianità del popolo ungherese (ed addirittura teorizza una democrazia illiberale, caratterizzata da questa ed altre affermazioni). Mi riferisco al ministro italiano, il quale parlando di immigrazione ha messo in rilievo il concetto di etnia: delineando così quella contrapposizione fra “noi” e “loro”, che rispetto ai diritti civili ed alle libertà è tradizionalmente nefasta. In effetti, la questione se le etnie esistano ed in quali termini la si può, di per sé, affidare tranquillamente all’etnologia. Ma diventa un tema politico se viene usata in direzione opposta all’art. 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali...”. Un articolo il quale può fare da programma, per chi si opponga a quel rischio di clericalismo globale che ho provato a tratteggiare.
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