martedì 11 dicembre 2018

MARATEA IERI


           NON  CI  SARA'  PIU'  BISOGNO  DI EMIGRARE

 di GIOVANNI RUSSO
Corriere della Sera – 15 ottobre 1957.


“Maratea sta diventando famosa. Anche all’estero è giunta la fama delle sue bellezze panoramiche e i turisti stranieri cominciano a preferire questo posto a luoghi più celebri, ma invasi, ormai da folle di villeggianti. Si è aperto per noi un avvenire migliore”. Così mi dice il vice-sindaco di Maratea, signor Limongi, un uomo facondo e cordiale, che sostituisce, in questi giorni, il sindaco Vitolo, un vecchio signore molto stimato, costretto da una malattia della moglie a tralasciare provvisoriamente le sue funzioni alle quali si dedica da tanti anni. Maratea sorge sulla costa tirrenica della Lucania, un tratto di appena 34 chilometri fra la costa campana e calabrese. Il paese è appollaiato, in alto, sotto il picco roccioso dove sorgono una croce monumentale, la Basilica di san Biagio, il santo protettore. Ai piedi del paese si stende una conca verdeggiante di oliveti e di vigneti, punteggiata da case dal tetto rosso, che scende fino alla marina dove si apre una baia di classica bellezza. Non ci si sorprenderebbe affatto se, all’improvviso, comparissero sulle onde le navi di Ulisse. Il mare viene a morire tra le scogliere, in piccole rade e fra rocciosi spuntoni, su cui si ergono torri dirute.
La ragione per cui il paese è sorto in questa posizione è la stessa che ha dato origine a tanti paesi delle coste meridionali. Gli abitanti, nel Medio Evo, abbandonavano le spiagge, insicure per le razzie dei pirati barbareschi e si rifugiavano sui picchi montani, al sicuro. I marateoti andarono a vivere addirittura sul cocuzzolo dove sorge la Basilica del Santuario e vi rimasero per secoli. Poi, quando la minaccia cessò, scesero giù, ma il ricordo della grande paura li trattenne a mezza strada ai limiti della conca verdeggiante. Salendo al Santuario si passa per l’antica Maratea. Nel paese abbandonato, le case sono quasi tutte cadute e quelle ancora in piedi hanno porte e finestre sprangate. I milanesi hanno scoperto anche questo posto, da cui si gode una vista incantevole, e hanno acquistato alcune case per venirvi a trascorrere le vacanze in solitudine e in pace. I segni di tempi nuovi sono evidenti alla marina di Maratea, dove un industriale biellese, il conte Rivetti, ha costruito una fabbrica tessile e un grande e lussuoso albergo, con l’aiuto della Cassa per il Mezzogiorno. Questa attività ha portato un soffio rinnovatore in un ambiente immobile da centinaia di anni.

BENEFICI DEL TURISMO

“Il paese – mi dice il vicesindaco – conta circa cinquemila abitanti. L’ospedale comunale, che dispone di cento posti-letto, è uno dei migliori della provincia, possiede moderne attrezzature e reparti specializzati. Maratea è sede di una scuola media statale e di un educandato femminile, gestito da un ordine di suore, con annesso un Istituto magistrale parificato”. L’amministrazione comunale accolse con entusiasmo, nel 1954, l’arrivo dell’industriale Rivetti e cercò di favorire le sue iniziative. Il Comune ha ceduto l’ottanta per cento di alcune imposte comunali, pagate dal gruppo industriale, in favore delle imprese turistiche lucane e si offrì anche di contribuire con le imposte di consumo, uno dei pochi cespiti redditizi alla spesa per la costruzione dell’elettrodotto, ma l’industriale rinunziò all’offerta per risparmiare al Comune un sacrificio troppo oneroso. “Noi abbiamo ben compreso – dice il vice-sindaco – i benefici che possono derivare alla popolazione dallo sviluppo economico e turistico della zona”.
Prima di queste iniziative, le risorse di Maratea erano soltanto l’agricoltura e l’emigrazione. Nessuno poteva dirsi ricco, ma nessuno era veramente misero, perché i marateoti sono gente laboriose parca, che lotta contro le difficoltà di una natura solo in apparenza benigna, e che si procura così una esistenza dignitosa. Nel Mezzogiorno, infatti, intelligenza e buona volontà non bastano per farsi strada. Sicché anche la borghesia benestante deve fare duri sacrifici per mantenersi a un livello di vita dignitoso. È questo il suo dramma. La borghesia meridionale non ha avuto per secoli altra speranza che l’impiego statale o l’incarico comunale. Molte aspirazioni vengono così soffocate. Ad esempio una delle migliori famiglie di Maratea è quella dei baroni Labanchi, il cui capostipite, luogotenente governatore degli Stati del principe di Bisignano, fu investito del titolo dal re Carlo II di Spagna nel 1664. Il suo discendente, don Emanuele Labanchi, si vide deperire irrimediabilmente la proprietà, ai primi del secolo, per una malattia che attaccò e distrusse quasi completamente le sue piantagioni di cedri. Era rimasto orfano a 17 anni e aveva dovuto perciò rinunciare a proseguire gli studi. Si dedicò completamente al lavoro e alla famiglia. Già da tempo il feudo di Castrocucco (pittoresco vecchio castello diruto che sorge su un picco vicino al mare) non apparteneva più alla sua famiglia.
Don Emanuele Labanchi, gentiluomo di vecchia razza, riuscì a dare un’ottima educazione ai quattro figli, tutti ora stimati professionisti e nello stesso tempo, non trascurò, anche a costo di personali sacrifici, di aiutare, con animo generoso, i bisognosi. Egli sarebbe l’unico erede al titolo nobiliare, dopo la morte del capo della famiglia, il cugino Francesco Labanchi, ma ha rinunziato a rivendicarlo. Con questo cugino egli ebbe l’unica vicenda giudiziaria della sua vita, ma ormai l’episodio è chiuso da anni e don Emanuele, che conserva un geloso ricordo del suo parente, non ama più che se ne parli. Ora ha 85 anni ed è immobilizzato da una malattia. Siede tutto il giorno su una poltrona presso il balcone da cui si mira il bellissimo panorama di Maratea, uno spettacolo che gli dà forza e serenità e fuga persino le tristezze della vecchiaia.

LA COSTRUZIONE DEL PORTO

Molti abitanti di Maratea hanno poi cercato di migliorare le loro condizioni emigrando.  L’emigrazione è stata una grande risorsa e le rimesse degli emigranti hanno costituito e costituiscono un notevole reddito per il paese. Finalmente ora le cose cominciano a mutare e forse tra qualche anno nessuno più emigrerà (tranne coloro, ancora numerosi, che hanno interessi all’estero, come il signor Lamarca, un notabile del luogo, che è stato recentemente in Brasile soltanto per aiutare due suoi fratelli nell’amministrazione delle loro proprietà in quel paese) perché potrà trovare lavoro nella zona. Non bisogna pensare però che il futuro si presenti facile. I problemi per creare e sviluppare il turismo e l’industria sono gravi, molti, e richiedono energia e danaro. Si tratta di costruire strade di accesso al mare, fognature, l’acquedotto, stabilimenti balneari, aprire nuove comunicazioni con i paesi vicini attuare il progetto del porto. Ora esistono tuttavia le condizioni per cambiare il volto di questa terra. Già da due o tre anni il tenore di vita si è elevato come è dimostrato da tanti segni. Ma i segni più soddisfacenti di questo rinnovamento sono la serietà e la capacità di cui danno prova i giovani di Maratea, che apprendono nella fabbrica il mestiere dell’operaio.
I tecnici hanno per loro espressioni di affettuoso elogio. In questi giorni si dovrà decidere il programma di valorizzazione della zona nell’Ambito di un piano che riguarda il golfo di Policastro. La prima iniziativa sarà la costruzione del porto di Maratea, di cui si parla fin dal 1700, un progetto che solo adesso diventerà realtà. I fatti dimostrano, quindi, che non si può parlare di una specie di “Inferiorità razziale” della gente del Sud, come usavano certi sociologi positivisti, ai primi del ‘900, dal Niceforo, al Sergi, al Lombroso. Gaetano Salvemini, che fino all’ultimo ha predicato che i nordici debbono occuparsi non solo di sé stessi, ma anche dei meridionali “se non vogliono trovarsi a mali passi” ebbe facile gioco a confutare quella tesi insensata. Giustino Fortunato non si stancava mai di ammonire che nel Sud le bellezze del paesaggio nascondono l’avarizia di una natura ostile. Ora c’è l’esempio di Maratea, che dimostra come i meridionali immessi in una moderna attività produttiva possono diventare operai e tecnici non inferiori a quelli del nord.

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