Pèsah
gli auguri di Erri de Luca
Pasqua è voce del verbo ebraico “pèsah”, passare.
Non è festa per residenti, ma per migratori che si affrettano al
viaggio. Da non credente vedo le persone di fede così, non impiantate in
un centro della loro certezza ma continuamente in movimento sulle
piste.
Chi crede è in cerca di un rinnovo quotidiano dell’energia di credere, scruta perciò ogni segno di presenza.
Chi crede, insegue, perseguita il creatore costringendolo a manifestarsi.
Perciò vedo chi crede come uno che sta sempre su un suo “pèsah”,
passaggio. Mentre con generosità si attribuisce al non credente un suo
cammino di ricerca, è piuttosto vero che il non credente è chi non parte
mai, chi non s’azzarda nell’altrove assetato del credente.
Ogni volta che è Pasqua, urto contro la doppia notizia delle scritture
sacre, l’uscita d’Egitto e il patibolo romano della croce piantata sopra
Gerusalemme.
Sono due scatti verso l’ignoto. Il primo è un tuffo nel deserto per
agguantare un’altra terra e una nuova libertà. Il secondo è il salto
mortale oltre il corpo e la vita uccisa, verso la più integrale
resurrezione.
Pasqua/pèsah è sbaraglio prescritto, unico azzardo sicuro perché affidato alla perfetta fede di giungere.
Inciampo e resto fermo, il Sinai e il Golgota non sono scalabili da uno
come me, che pure in vita sua ha salito e sale cime celebri e immense.
Restano inaccessibili le alture della fede.
Allora sia Pasqua piena per voi che fabbricate passaggi dove ci sono
muri e sbarramenti, per voi apertori di brecce, saltatori di ostacoli,
corrieri a ogni costo, atleti della parola pace.
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