- Da Nessuno Tocchi Caino newsletter <noreply@nessunotocchicaino.it> - del 27/12/2024
DOPO DIO VENGONO I CARCERATI: IL PAPA APRE IL GIUBILEO A REBIBBIA
Sergio D’Elia su l’Unità del 27 dicembre 2024
Atto straordinario quello di Papa Francesco, non solo simbolico, ma anche
teologico e politico.
Ha aperto la porta santa in un luogo chiuso, dimenticato, di privazione non
solo della libertà ma di tutto, financo della vita. Con questo atto simbolico,
di apertura, il papa ha chiuso il carcere, un istituto anacronistico, ormai
fuori dal tempo e fuori dal mondo che del significato letterale della parola,
che dall’aramaico “carcar” trae origine, ha svelato tutta la sua essenza,
quella di sotterrare, tumulare. Ottantotto detenuti che si sono tolti la vita
in questo anno che volge alla fine. E otto detenuti che si sono suicidati.
Altri centocinquantasei sono morti per altre cause, molti di “morte naturale”,
semmai può essere certificato come naturale e non criminale quel che avviene in
carcere.
Con l’apertura della porta santa a Rebibbia Francesco ha aperto le porte del
paradiso a detenuti e detenenti, le porte della vita, dell’amore, della
speranza. In tutto il messaggio di Francesco a Rebibbia risuona il motto di
Paolo di Tarso: Spes contra spem. È stato il motto che ha ispirato la visione e
l’azione di Marco Pannella, il suo modo di pensare, di sentire e di agire nella
vita e nella lotta politica. L’essere speranza contro ogni speranza è “il vento
dello spirito che muove il mondo”, aveva scritto Marco in una lettera
struggente, la sua ultima prima di andarsene, proprio a Papa Francesco.
Un atto teologico è stato anche quello di Francesco. Dopo la prima porta santa,
quella aperta a Dio, la seconda porta santa è stata aperta all’uomo.
C’è il Signore nell’alto dei cieli e c’è l’uomo sulla terra. Ma chi è per papa
Francesco l’uomo sulla terra che merita di essere prima di tutti santificato?
Non il “buono”, ma il “cattivo”, non il libero ma il carcerato. È l’uomo della
pena che merita di essere liberato. Ecco l’atto teologico, di una vera a
propria teologia della liberazione. Che non è limitata, localista,
terzomondista, ma infinita, immensa, universale.
Francesco con l’atto compiuto a Rebibbia all’esordio dell’anno giubilare ha
aperto gli occhi al mondo, lo ha illuminato di amore, di coscienza, di
speranza. E lo ha fatto a Natale, la festa che segna l’inizio di una nuova
storia con l’avvento sulla terra di un salvatore dell’umanità. Cioè del nostro
dover essere umani, anche nell’atto di fare giustizia.
Il monito cristiano “chi è senza peccato scagli la prima pietra” è un monito
per i lapidatori e i giustizieri del nostro tempo. L’ancor più radicale suo
dire “non giudicare!” è fonte di ispirazione per chi è impegnato nella ricerca
non di un diritto penale migliore ma di qualcosa di meglio del diritto penale.
Francesco è andato a Rebibbia, nel luogo dove abitano Caino e Abele, il detenuto
e il detenente, insieme, parti della stessa comunità penitenziaria, vittima
l’uno e l’altro di condizioni inumane e degradanti. Da Rebibbia, Francesco
indica la via, quella non della pena alternativa ma della radicale alternativa
alla pena. Quella della liberazione dal carcere, di un luogo che non è più,
semmai è stato, solo di privazione della libertà. Perché la pena inflitta è
corporale, in carcere la perdita è totale: della salute, del senno, della vita,
degli stessi sensi fondamentali e dei più significativi rapporti umani.
Francesco è andato a Rebibbia, non solo da capo spirituale, ma anche da leader
politico. Perché la sua visita è stata anche un atto politico. Al potere
pubblico, al parlamento, al governo ha indicato la riforma necessaria per ridurre
il danno connaturato a un istituto non a caso detto penitenziario, perché è
strutturalmente di tortura, volto a infliggere dolore e sofferenze gravi.
Amnistia e indulto, ha invocato Francesco. Sono la soluzione politica,
immediata, una riforma di per sé strutturale, necessaria e urgente per ridurre
il carico di pena in un luogo dove sono sotterrati esseri viventi che lo
abitano e ci lavorano. Quindicimila detenuti in più rispetto allo spazio
vitale, civile, umano, regolamentare. Diciottomila detenenti in meno ad
assicurare in quel luogo di privazione di tutto, non solo la sorveglianza, ma
anche il compito di “despondere spem”, seminare la speranza.
Lo Stato, il Parlamento, il Governo seguano l’esempio di Francesco. Aprano la
porta santa della Grazia senza la quale la Giustizia è monca, crudele,
letteralmente spietata. Non sarebbe la resa dello Stato, ma un atto di clemenza
per il bene di tutti. Sia di Abele sia di Caino, fratelli diversi ma gemellati
dallo stesso dolore che arreca il luogo della pena violento e malsano dove
vivono, dove l’umanità, la civiltà, la stessa pietà sono morte.
Come Nessuno tocchi Caino, nella nostra opera laica di misericordia corporale,
spesso insieme alle Camere penali, abbiamo visitato negli ultimi due anni oltre
duecentoventi istituti di pena. E possiamo dire che non esiste un carcere
migliore. Che l’unica riforma dell’istituto penale è la sua abolizione. Che è
giunto il tempo di liberarsi di un sistema inutile e dannoso sia per i
carcerati sia per i carcerieri. Se vogliamo continuare a dirci “cristiani”. Se
vogliamo tornare a essere civili, semplicemente, umani.
Nessun commento:
Posta un commento