E' l'UDI (Unione Donne in Italia) a sostenerlo nel motivato documento di seguito riportato, con riferimento al DDL "Pillon":
UDI - Unione Donne in Italia
Perché il
DDL Pillon va ritirato!
Il DDL n.
735 “Norme in materia di affido
condiviso, mantenimento diretto e garanzia
di bigenitorialità”, con primo firmatario il Senatore Simone Pillon, nelle sue disposizioni che di fatto relegano
il coniuge economicamente più debole (che ancora oggi risulta essere la donna)
in una condizione di sudditanza, privandolo persino delle tutele previste nei
confronti del coniuge maltrattante (in aperta violazione di obblighi
internazionali e di principi sanciti da costante e consolidata giurisprudenza)
realizza una vera e propria vendetta nei confronti di tutti diritti e le
libertà conquistate negli ultimi cinquant’anni in particolare dalle donne.
In quanto
tale, il disegno di legge si pone come primo tassello verso quella
restaurazione reazionaria della società che pare essere l’obiettivo di chi
sostiene questa riforma.
Il disegno di legge Pillon avrebbe infatti come
ambizioso obiettivo quello di attuare una progressiva de-giurisdizionalizzazione
del diritto di famiglia, ponendo al centro dell’attenzione soprattutto il
minore, parte che sino a oggi si ritiene erroneamente trascurata dalle norme
vigenti.
Si legge, infatti, nella relazione al disegno, che
si è posta l’attenzione sui figli con l’intento di restituire ai genitori la
possibilità di decidere e contemporaneamente confinare il giudice in un ruolo
residuale, lasciando alle parti molta più autonomia rispetto al passato.
Tuttavia, da una mera lettura dei 24 articoli che
lo costituiscono, balza subito all’evidenza che l’obiettivo raggiunto, una
volta diventato legge, sarà tutt’altro, ossia l’aver dato un ruolo di
preminenza ai bisogni e alle priorità dell’adulto, con l’ovvia rinuncia a
perseguire il best interest del minore.
In particolare, si verificherebbe un’esasperata
ingerenza nella vita quotidiana dei genitori (ex coniugi) e del minore stesso,
obbligati a confrontarsi con il mediatore, privati proprio della possibilità di
decidere autonomamente sui propri figli e costretti a districarsi tra mediatori
familiari, coordinatori genitoriali, legali di fiducia e come se non bastasse
anche con i nonni, non più testimoni, ma addirittura parti.
Il tutto con un probabile se non sicuro aumento di
conflittualità e con un inaccettabile incremento dei costi a carico delle
famiglie.
Ed il
minore?
Il minore, colui che la proposta normativa in
oggetto millanta di voler tutelare, vivrà due realtà parallele, presumibilmente
i primi giorni del mese in una casa, con un genitore ed eventualmente una tata,
gli ultimi giorni in un'altra casa, con l’altro genitore e un'altra
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tata.
Tutto
questo per il suo “benessere” ed in nome del principio della bigenitorialità!
Esaminiamolo
nel particolare.
1)
Il
mediatore familiare (artt. 1 - 5)
La prima
questione tratta e disciplina la figura del mediatore familiare.
Innanzitutto, è singolare che su un tema così
importante e controverso i primi articoli si preoccupino di disciplinare
proprio la figura del mediatore, le sue qualifiche e soprattutto i suoi compensi.
Si prevede, poi, la possibilità delle parti di
partecipare al procedimento di mediazione familiare con i loro legali.
Tale soluzione però ha due aspetti negativi: da un
lato si obbligano i due ex coniugi che si vogliono separare consensualmente – e
quindi già in accordo tra di loro – a confrontarsi con tre figure
professionali, dall’altro gli si obbliga a sostenere un notevole aumento dei
costi.
Infatti, in favore del mediatore è previsto un
onorario, e non ha alcuna importanza se il primo colloquio sarà a titolo
gratuito o che i compensi saranno stabiliti da una tabella ministeriale, quello
che rileva è che comunque i costi saranno raddoppiati, andando sempre più verso
un tipo di giustizia pensata per persone facoltose.
2)
Reclamo
immediato al giudice (art. 6)
Sebbene l’argomento sia di minore importanza, ci
sembra comunque opportuno segnalare i gravi ritardi e rallentamenti che saranno
provocati dalla modifica dell’articolo 178 del cpc.
Il DDL dispone, infatti, che l’ordinanza del
giudice istruttore sarà impugnabile dalle parti con reclamo immediato davanti
al collegio.
Tuttavia, se per un verso ciò comporterà un maggior
controllo da parte del Collegio, dall’altro tale misura si tradurrà in un grave
aumento della durata del processo stesso, in considerazione dell’alto tasso di
conflittualità che caratterizza le controversie in esame, poiché le parti
potranno impugnare qualsiasi ordinanza di modifica del piano genitoriale.
3)
Obbligatorietà della mediazione familiare nei casi di separazione
consensuale in presenza di figli minorenni (artt. 7, 8 e 11)
Ma la questione più rilevante affrontata dal DDL riguarda
l’obbligatorietà della mediazione familiare nei casi di separazione consensuale
con i figli minorenni. Diversamente da quanto si è pubblicizzato, la ratio del
DDL sembrerebbe quella di
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volere tutelare la famiglia tradizionalmente
intesa, obbligando i coniugi a sottoporsi in ogni caso al tentativo di
conciliazione, limitando la loro autodeterminazione e costringendo il minore a
una mobilità forzata.
Non possiamo però dimenticarci
che la Raccomandazione 98/1 del 19.01.98 del Consiglio d’Europa, nonché la
Raccomandazione 1639 del 25.11.03 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio
d’Europa mettono in evidenza l’autonomia e la complementarietà della mediazione
rispetto al contesto giudiziario; la funzione esclusivamente di natura
compositiva e non valutativa del mediatore stesso ed il fatto che la
volontarietà della coppia al percorso di mediazione familiare deve essere
predittiva di un buon esito del medesimo.
Oltre a ciò, la mediazione
familiare presuppone e richiede, per la propria buona riuscita, un clima di
fiducia reciproca e collaborazione, motivo per il quale, durante il percorso,
tutti i procedimenti giudiziari e/o stragiudiziali nei quali i clienti del
mediatore familiare siano avversari, vengono sospesi fino al termine del
percorso di Mediazione Familiare per favorirne il buon andamento; questa
“tregua legale” rende le eventuali
accuse di abuso e maltrattamento,
presentate prima e dopo la separazione, del tutto ininfluenti nella
determinazione del cosiddetto piano genitoriale, aumentando il disequilibrio di
potere a favore del soggetto maltrattante: difatti, proprio per questo motivo
la Convenzione di Istanbul vieta il ricorso alla mediazione familiare nei casi
di violenza.
L’altro punto controverso riguarda l’art. 11, nel
quale si specifica che il minore: “Ha anche il diritto di trascorrere con
ciascuno dei genitori tempi paritetici o equipollenti, salvi i casi
d’impossibilità materiale”.
Il che significa che due genitori che si vogliono
separare consensualmente sono costretti a considerare un tempo paritetico o
equipollente da trascorrere con il minore.
La norma così com’è stata prevista, prescinde dalla
volontà di uno dei due genitori di farne richiesta, perché laddove gli stessi
concordassero un piano genitoriale che non preveda tempi paritetici, è rimesso
al giudice il dovere di garantirli.
In un tale contesto siamo ben lontani dalla
promessa di de-giurisdizionalizzazione voluta con il DDL, perché al contrario
il Tribunale dovrà intervenire molto più spesso di quanto succede oggi.
Sarà dunque il giudice a dover valutare, quando in
presenza di una impossibilità materiale, si potrà autorizzare il mancato
rispetto del principio generale di pariteticità dei tempi, ponendosi
interrogativi del genere, l’orario di lavoro prolungato di uno dei coniugi,
potrà essere considerata impossibilità materiale?
In Italia non esistono studi sulla co-genitorialità
delle coppie separate e non sappiamo
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quanto
tempo mediamente il genitore non-collocatario trascorre con i figli. Quello che sappiamo con
certezza, però, è che il lavoro di cura, nelle famiglie italiane integre, è
prevalentemente sulle spalle delle donne. I dati più recenti ci vengono
dall'ultimo rapporto di Save The Children sulla maternità in Italia, intitolato
“Le Equilibriste” che afferma: “dai dati emerge un’Italia in cui le madri si
trovano ad essere equilibriste tra la vita privata e quella lavorativa. La crescita dei figli viene vissuta oggi
come un peso che grava
esclusivamente sulle spalle delle donne” (pag.15). Nella fascia di età
25-44 anni – quella in cui si
colloca il maggior numero di madri, la giornata lavorativa di una donna dura in
media 11 ore e 39 minuti, a fronte di una giornata lavorativa degli uomini di 9
ore e 47 minuti (pag.9). A confermare che l’asimmetria è causata dal carico di
lavoro domestico e di cura c’è un altro indicatore temporale, che restituisce
in modo sintetico come viene distribuito il lavoro familiare e offre un’idea
della differenza di impegno quotidiano tra uomini e donne: è l’indice di
asimmetria di genere, che misura il tempo dedicato al lavoro familiare dedicato
dalla donna sul totale del tempo dedicato al lavoro familiare da entrambi i
partner, e che per le coppie con bambini arriva al 67,3%. Se la condizione
femminile nel suo complesso, mediando tra le varie fasi della vita di tutte,
rimane ancora arretrata rispetto agli altri paesi europei (secondo il Global
Gender Gap Report l’Italia si colloca all’82esima posizione su 144 paesi –
pag.6), essere madri, oggi, in Italia, significa raggiungere il punto più critico
delle differenze di genere. Ad esempio, la maternità incide pesantemente
sulla condizione occupazionale delle
donne: se tra i 25-49enni risultano occupati il l’83,6% degli uomini senza
figli e il 70,8% delle donne senza figli, la presenza di un bambino aumenta il
divario di genere; risultano infatti occupati nella medesima fascia d’età
l’88,5% dei padri e solo il 55,2% delle madri (pag.5). Che alla radice di
questo divario di genere vi sia il lavoro familiare di cui principalmente le
donne si fanno carico, lo suggeriscono i dati dell’Ispettorato Nazionale del
Lavoro, che in merito alle motivazioni addotte per le dimissioni rileva la
preponderanza di quelle legate alla difficoltà di conciliare il lavoro
retribuito con la cura della prole (pag.5).
Questi sono solo alcuni dei dati che ci danno la
misura di quanto siamo lontani da una
situazione che potrebbe essere definita
di “parità genitoriale” nelle coppie non separate, un dato reale e ben
documentato che i promotori del ddl 735 invece negano apertamente.
Se in
altri paesi i padri separati trascorrono più tempo con i loro figli dopo la
separazione, è soltanto perché trascorrevano più tempo con i loro figli anche
prima della separazione.
Per questo motivo, se i supporter del disegno di
legge fossero davvero interessati agli effetti sul benessere dei bambini del
co-parenting o sinceramente preoccupati che l'asimmetria di genere possa
procurare danni effettivi alla salute dei bambini, si farebbero promotori di
iniziative quali una maggiore tutela per le donne lavoratrici,
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oppure maggiori investimenti nei servizi alla prima
infanzia e magari un congedo parentale un po’ meno simbolico dei 4 giorni
attualmente a disposizione dei papà italiani, considerato che i tanto portati
ad esempio padri svedesi possono usufruire di ben 15 settimane. Politiche che
le associazioni delle donne e solo loro chiedono da tempo.
4)
Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o
violazioni (art. 9).
Il DDL ha poi previsto che in caso di gravi
inadempienze, di manipolazioni psichiche o di atti che comunque arrechino
pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità
dell’affidamento, nonché in caso di astensione ingiustificata dai compiti di
cura di un genitore e comunque in ogni caso ove riscontri accuse di abusi e
violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro
uno dei genitori, il giudice possa valutare prioritariamente una modifica dei
provvedimenti di affidamento ovvero, nei casi più gravi, la decadenza dalla
responsabilità genitoriale del responsabile ed emettere le necessarie misure di
ripristino, restituzione o compensazione.
Nel modificare l'articolo originario, le
integrazioni previste dal DDL 735 forniscono una lista dalla quale però sono
esclusi la violenza diretta o assistita nei confronti del minore, mentre
compaiono la "manipolazione psichica" - un modo diverso di definire
l'alienazione genitoriale - e le false accuse.
Ebbene, la letteratura sull'argomento è scarsa e
per lo più obsoleta, ma i dati a disposizione ci dicono che questo tipo di
accuse è molto raro nei casi di divorzio e solo una piccola percentuale delle
accuse risulta infondata e/o mossa nella consapevolezza della loro falsità.
A tale proposito si era espresso qualche tempo fa
anche Keir Starmer, che, oltre ad essere un avvocato difensore celebre per la
sua competenza in tema di diritti umani, all'epoca era anche il quattordicesimo
Director of Public Prosecutions (DPP), a capo del Crown Prosecution Service del
Governo della Gran Bretagna. In questa veste, Starmer presentò uno studio sulla
questione delle false accuse: nei 17 mesi di osservazione, tra il 2011 e il
2012, in Inghilterra e Galles si sono registrati 5.651 casi di stupro e 111.891
casi di violenza domestica; nello stesso periodo, i casi in cui si sono
riscontrate false accuse di stupro risultano essere 35, mentre sono solo 6 i
casi di false accuse di violenza domestica e 3 i casi in cui le false accuse
erano di stupro e violenza domestica insieme. Sulla base dei dati raccolti, ha
affermato Starmer che "il fenomeno delle false accuse è raro", ma non
solo; ha aggiunto che "la convinzione errata che le false accuse di stupro
o violenza domestica siano comuni può minare il lavoro di polizia e autorità
giudiziarie nel momento in cui si trovano ad investigare su questo genere di
crimini", mettendo così in pericolo la vita di donne e bambini.
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I dati provenienti da Stati Uniti, Canada,
Australia e Gran Bretagna, ovviamente, non ci restituiscono nulla della
situazione italiana. Potremmo tranquillamente ipotizzare di vivere in un paese
popolato da un'eccezionale quantità di persone con l'inclinazione a mentire e
calunniare, se non fosse che, anche nei paesi dai quali proviene la letteratura
scientifica sul tema, le associazioni di papà separati analoghe ad Adiantum
sono solite diffondere le medesime percentuali.
Di fatto,
oltre alla propaganda delle associazioni e le affermazioni di qualche isolato
soggetto, non esiste nulla di concreto che ci confermi l'esistenza di un'alta
percentuale di accuse infondate strumentalmente mosse allo scopo di ottenere
vantaggi nel corso di controversie per l'affido in Italia.
Infine, l’art. 9 prevede anche il risarcimento dei
danni nei confronti del minore qualora si verifichino gravi inadempienze o
manipolazioni psichiche, si stabilisce dunque un risarcimento danni per la
sindrome di alienazione parentale, disconosciuta dall’intera comunità
scientifica internazionale.
5) Mantenimento diretto (art. 11)
L’art. 11 disciplina anche il mantenimento diretto
del minore, prevedendo un dettagliato elenco dei capitoli di spesa che dovrà
essere diviso tra i due genitori, ma solo nell’ipotesi che entrambi lavorino e
abbiano un reddito similare, mentre in caso di mono reddito o comunque di una
situazione economica particolarmente modesta si farà ricorso all’assegno di
mantenimento, che comunque deve essere sempre corrisposto per garantire il
giusto tenore di vita all’ex coniuge.
Il mantenimento diretto è proposto come migliore
attuazione del principio di bigenitorialità (ciascun genitore è chiamato a
provvedere direttamente ai bisogni del minore, al suo sostentamento, come
idealmente dovrebbe avvenire in una famiglia unita) e viene accostato alla
questione del collocamento paritario dei figli: l'ipotesi più semplice,
infatti, è quella in cui il figlio venga collocato presso ogni genitore per lo
stesso numero di giorni e che entrambi i coniugi producano lo stesso reddito.
Non è secondario per i promotori -ed è quindi sottolineato anche nel preambolo-
che un regime del genere evita ad uno dei due genitori di dover corrispondere
le somme destinate ai bisogni del minore nelle mani dell’ex partner.
Alla base di questo ragionamento c'è la convinzione
che l'alta percentuale di padri inadempienti non sia dovuta al sottrarsi dalle
proprie responsabilità di genitori, bensì all'idea che tale assegno sia una
rendita a favore del coniuge beneficiario, destinata ad esigenze che poco hanno
a che vedere con la cura del minore; se mediamente un cittadino che guadagna
1,200 euro mensili versa per un figlio 300 euro dalla sua busta
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paga, mantenere un bambino di 2 anni costa
mediamente ad una famiglia italiana oltre 830 euro al mese, ne costa circa
1.000 quando compie 9 anni; per non parlare del periodo successivo alla
maggiore età.
Queste cifre sono la spiegazione di quanto ci
racconta l'Istat della situazione delle madri single o separate nel nostro
paese: "La condizione economica delle madri sole è critica: quelle in
povertà assoluta sono l’11,8% del totale, a rischio di povertà o esclusione
sociale sono il 42,1% e nel Mezzogiorno arrivano al 58%. Più della metà delle
madri sole non può sostenere una spesa imprevista di 800 euro e neanche una
settimana di vacanza. Quasi una su 5 è in ritardo nel pagamento delle bollette,
affitto e mutuo. E altrettante non possono riscaldare adeguatamente
l’abitazione.
Alla luce di percentuali del genere, è molto
difficile sostenere la teoria che i padri non versino l'assegno perché sono
certi che con quei soldi le ex mogli si godano la vita invece di occuparsi dei
figli, visto che la maggior parte delle madri sole ha ben poco di cui godere.
Poiché la situazione italiana è molto lontana dal
produrre uno scenario ideale nel quale entrambi i genitori producono il
medesimo reddito (solo il 54% delle donne infatti lavora e, chi lo fa, guadagna
0.48 euro per ogni euro guadagnato dai colleghi maschi; se il salario annuo di
una donna ammonta a 23mila euro, quello di un uomo, 44mila) come
è
realizzabile un mantenimento
diretto che rispetti la proporzionalità al reddito di ciascuno dei genitori?
Il disegno di legge propone di
stilare un preciso elenco di ogni singola voce di spesa (visite mediche, pappe,
latte artificiale, pannolini, lettino, carrozzina, passeggino, biberon,
fasciatoio, medicine, vestiti, calzature...) e di suddividere poi quei capitoli
di spesa in base agli introiti di ciascun genitore; si configura un lavoro
davvero complesso (chissà quante ore di mediazione a pagamento occorreranno...)
e da ripetere molto spesso, visto che nella prima infanzia i capitoli di spesa
variano a grande velocità: quanti "piani genitoriali" dovranno
stilare le famiglie e a quali costi?
6) Assegnazione casa familiare (art. 14)
La norma in esame prevede la possibilità di
stabilire nell’interesse del minore che questi mantenga la residenza nella casa
familiare indicando, in caso di disaccordo, il genitore che può continuare a
risiedervi, il quale sarà tenuto a versare il pagamento di un indennizzo a
carico del coniuge che non risiederebbe nella abitazione.
Ebbene, tale ipotesi è decisamente impercorribile,
non solo perché non sembra tener conto della reale situazione economica in cui
versa solitamente una famiglia italiana, già
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ampiamente illustrata nel capitolo precedente, ma
soprattutto perché non sembra ricordarsi che spesso la donna ha rinunciato al
lavoro oppure ha interrotto la propria carriera per crescere i figli.
Peraltro, si evidenzia la genericità dell’assunto,
atteso che non esamina il caso di comproprietà o di intestazione ai figli, ma
parla solo di proprietà.
Nel nostro Paese l’affido condiviso non ha trovato
una grande applicazione, non per le ragioni che si leggono nel corpo della
relazione al ddl, ma poiché, diversamente da quanto si verifica negli altri
paesi europei, la gestione dei figli è pressoché esclusiva prerogativa della
donna.
Per tale motivo, la risoluzione del Consiglio di
Europa, volta a adottare una legislazione che assicuri l’effettiva uguaglianza
tra padre e madre nei confronti dei figli, trova maggiore applicazione nei
paesi della Unione.
Diversa è la cultura e profondamente differenti
sono stati negli anni in essi gli interventi normativi e di welfare volti,
effettivamente, a tutelare e migliorare la possibilità delle donne di crescere
i loro figli, salvaguardando il proprio diritto al lavoro e alla possibilità di
progredire sul piano professionale e dunque usufruire di quella autonomia
economica che oggi è quasi inesistente.
7) Il "friendly parent", ovvero i diritti
relazionali del bambino (art.17)
Recita l’art. 17 del DDL: "Quando in fase di
separazione dei genitori o dopo di essa la condotta di un genitore è causa di
grave pregiudizio ai diritti relazionali del figlio minore e degli altri
familiari, ostacolando il mantenimento di un rapporto equilibrato e
continuativo con l’altro genitore...il giudice…può adottare con decreto uno o
più provvedimenti . . .".
La
“friendly parent provision” è un concetto sulla base del quale si pretende di
giudicare la competenza genitoriale in sede di separazione: il bravo genitore è
un genitore "friendly", ovvero un genitore che - dopo la separazione
– è capace di cooperare con l'altro genitore e di agire in modo da incoraggiare
e favorire i contatti del minore con lui.
In Italia la friendly parent provision è denominata
“criterio dell’accesso” e viene inteso come la "capacità di comprendere ed
elaborare il problema della continuità genitoriale, che lega entrambi e perdura
oltre e nonostante la separazione, nonché la disponibilità di assicurare al
figlio l’accesso all’altro genitore e, con lui, alla sua stirpe ed alla sua
storia relazionale."
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La friendly parent provision sembra la naturale
conseguenza del riconoscimento del diritto del figlio minorenne di mantenere,
anche in caso di separazione dei genitori, un rapporto equilibrato e
continuativo con ciascuno di essi, in modo da ricevere da entrambi cura,
educazione ed istruzione, un diritto sancito dalla legge sull'affido condiviso
del 2006; in quanto tale, sembrerebbe un criterio in grado di garantire che le
decisioni prese dal Tribunale in materia di affido vengano prese nel rispetto
del superiore interesse del minore.
In realtà la friendly parent provision è un
ragionamento paradossale e conduce a decisioni spesso dannose per i soggetti
coinvolti.
È
paradossale perché propone di
limitare i tempi di permanenza del minore col genitore "colpevole" di
aver ostacolato la bigenitorialità, condannando il minore a non trascorrere
tempi paritetici con entrambi i genitori, cioè creando per il minore la
medesima situazione pregiudizievole che dovrebbe correggere; conduce a
decisioni pericolose e/o dannose per i soggetti coinvolti perché si fonda su
premesse false.
Alla base della necessità di garantire al minore il
mantenimento dei rapporti con entrambi i genitori, la cosiddetta
bigenitorialità, ci sono due premesse:
La presunzione che sussista sempre, nel periodo
precedente alla separazione, un rapporto equilibrato e continuativo fra
entrambi i genitori e i loro figli e che la relazione genitore-figlio possa
essere danneggiata solo ed esclusivamente dall'evento separazione;
La presunzione che ogni genitore, in quanto
genitore, sia sempre e comunque in grado di agire nel migliore interesse del
minore, quindi il pericolo maggiore per un sano sviluppo del bambino è il suo
allontanamento; questo, nel caso di genitori maltrattanti nei confronti della
prole o colpevoli di abusi nei confronti nell'ex partner non è affatto vero, ma
che non sia vero lo afferma paradossalmente – lo abbiamo già visto – la stessa
friendly parent provision in quanto criterio utilizzato per giustificare
l'allontanamento di un genitore.
La friendly parent provision è stata inserita in
Australia nel 2006 con il Family Law Act. Dopo un attento monitoraggio degli
esiti della riforma è stata rimossa pochi anni dopo, nel 2011. Dal 2012, in
Australia, la friendly parent provision non è più un criterio sulla base del
quale stilare una valutazione delle competenze genitoriali.
Le statistiche australiane sui casi di separazione
finiti davanti ad un giudice hanno mostrato che in più del 70% di quei casi –
quei casi nei quali i genitori si erano mostrati "unfriendly" e
conflittuali – erano state presentate accuse di violenza domestica e abusi sui
bambini.
A dispetto di quella che è l'opinione diffusa, in
Australia come in Italia, tutte le ricerche
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in merito hanno dimostrato che raramente le accuse
di violenza domestica e abusi sui bambini sono false e strumentali.
Un altro studio, sempre australiano, ci dice che:
dei colpevoli di abuso sui minori (quelli trovati colpevoli al di là di ogni
ragionevole dubbio), il 61% erano padri, il 31% altri membri della famiglia
(per lo più maschi) e l’8% erano madri. Dei 4 tipi di abuso (abuso fisico,
sessuale, psicologico e negligenza), l’abuso sessuale è risultato quello
maggiormente confermato dalle indagini e i maschi rappresentano la percentuale
più alta fra i perpetratori.
Delle accuse presentate dalle madri, il 63% è stato
confermato dalle indagini, mentre solo il 13% delle accuse presentate dai padri
è stato confermato. Su 147 famiglie esaminate, in 11 casi le accuse sono
risultate false (pari al 7%).
Un altro studio afferma che quando i padri vengono
accusati di abuso, la possibilità che queste accuse conducano il Tribunale a
negare i contatti con la prole è remota anche quando le accuse sono confermate
dalle indagini, mentre un report dell'Australian Institute of Criminology
denuncia che i bambini tutelati dal West Australian Family Court hanno espresso
tutta la loro frustrazione per il fatto che le loro denunce degli abusi subiti
sono stati minimizzate e/o rigettate dalla Corte, che le ha imputate all’
“influenza materna”.
In un altro studio ancora si rileva che proprio i
padri che reclamavano nel corso delle controversie per l'affido maggiore tempo
da trascorrere con i figli erano quei padri con alle spalle un passato di
maltrattamenti, problemi mentali o dipendenza da alcol o droghe e che,
nonostante questo, il Giudice si è impegnato a garantire la continuità della
relazione padre-prole.
Alla luce di tutte le ricerche condotte, oltre ad
eliminare la friendly parent provision, il Family Law Legislation Amendment del
2011 (che come sottotitolo porta "Family Violence and Other
Measures", misure riguardanti la violenza domestica), ha modificato le
definizioni di "violenza domestica" e "abuso", e ha imposto
che la priorità, quando si tratta di decidere per l'affidamento di un minorenne
coinvolto in una separazione, deve essere la sua incolumità.
La parola usata in inglese è "safety",
intesa come "freedom from risk" (libertà dal rischio). Il bambino
deve essere innanzi tutto essere protetto da tutto ciò che può costituire un
rischio concreto per la sua vita e per il suo benessere.
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Questo perché, spiega il magistrato David Halligan
in una "guida alla riforma per gli operatori": "l'enfasi sulla
bigenitorialità e sul concetto di "friendly parent" ha portato i
tribunali a dare scarsa importanza e inadeguata attenzione al problema della
violenza domestica e del maltrattamento dei bambini."
La seconda priorità, afferma il professor Patrick
Parkinson, ex presidente del Family Law Council (un organo consultivo del
procuratore generale federale), deve essere la "parental safety":
quando si decide per l'affido di un minore, prima ancora di preoccuparsi di
mantenere il rapporto fra questi e i genitori, occorre assicurarsi che uno dei
genitori non sia costretto a correre rischi a causa dell'altro; è più
importante impedire che i soggetti coinvolti – tutti i soggetti coinvolti, non
solo i bambini - corrano il rischio di subire violenze, piuttosto che tutelare
il rapporto del minorenne con entrambi i genitori.
In Italia, nel 2014 Rosi Buonanno muore assassinata
a casa sua, nella quale l'ex convivente Benedetto Conti poteva accedere per ben
due volte a settimana allo scopo di far visita al figlio di due anni. Così
aveva stabilito il Giudice, a dispetto delle accuse di stupro e stalking: sei
denunce. Conti si è recato a casa di Rosi, l'ha uccisa e se ne è andato,
lasciando il bambino in casa, accanto al corpo senza vita della madre, da solo.
Il bambino è rimasto lì per ore, prima che lo ritrovassero i nonni. Dopo
l'omicidio la madre di Rosi dichiarò alla stampa: “Sapevamo che sarebbe finita
così”. Una morte annunciata, che si sarebbe potuta evitare grazie ad una
adeguata valutazione del rischio e all'applicazione del principio della parental
safety. È anche quanto è successo nel caso di Federico Barakat nonostante tutte
le denunce della madre. O nella strage di Cisterna di Latina per non citare che
i casi più noti.
La friendly parent provision impone una
semplificazione della realtà, specialmente quella delle relazioni affettive,
attraverso uno schema rigido che omette colpevolmente di citare il problema
delle violenze intrafamiliari, rischiando in questo modo di rendere lo
strumento normativo un concreto ostacolo ai processi di uscita da un vissuto di
maltrattamenti e sofferenza.
Per tutelare davvero i bambini coinvolti in una
separazione giudiziale occorre prendere coscienza di alcuni fatti:
• Non è vero che la violenza sulle donne non ha niente a che fare con la
violenza sui bambini, anzi, tutti gli studi mirati ad analizzare la coesistenza
di violenza domestica e abusi sui minori hanno rilevato che spesso si
sovrappongono, perché è estremamente probabile che quei padri che hanno usato
violenza sulle compagne adottino anche con i propri figli il medesimo
comportamento abusante e le stesse tecniche di controllo psicologico;
• Non è vero che le accuse di violenza domestica e abusi sessuali sui
bambini sono comuni durante le controversie per l’affido dei minori e non è
vero che la stragrande
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• “Non si
può essere allo stesso tempo un buon padre e un partner violento.
8) Abrogazione del reato di cui all’art. 570 bis cp
(art. 21)
Con l’abrogazione poi del reato di cui all’art. 570
(art. 21) il coniuge non ha più la possibilità di denunciare la grave condotta
perpetrata, atteso che di tutt’altra natura è la sanzione amministrativa
prevista dal disegno di legge. In sintesi, una sorta di impunità al genitore
dolosamente inadempiente.
*
Riassumendo, il DDL Pillon in concreto vuole:
•
Espropriare i genitori che si separano
consensualmente della capacità genitoriale
sostituendo alla loro figura il mediatore famigliare in ciò che riguarda la
vita concreta di bambini e bambine, partendo dal presupposto che due persone
che si separano siano automaticamente incapaci di occuparsi del bene dei
minori, e pertanto vadano esautorate dai loro compiti, limitate nella loro
libertà e costrette a rendere conto ad una figura terza, ritenuta dallo Stato
un supervisore competentissimo e super
partes, anche quando la separazione è consensuale e vengono trovati accordi
soddisfacenti per tutti;
•
Costringere i bambini e bambine a cambiare
continuamente casa indipendentemente
dalle valutazioni e dagli accordi dei genitori trasformandoli in piccoli
migranti settimanali senza tener conto del fatto che la stabilità della propria
stanza e della casa è un bisogno fondamentale per ogni essere umano, con tutto
il carico di fatica che questo comporta: non si amano due orsetti identici, non
ci sono due pigiamini preferiti identici, nulla di ciò che amiamo è
interscambiabile perché non siamo cloni.
Il Disegno di legge Pillon per questo
•
Introduce il mantenimento in forma diretta
dei figli, eliminando l’attuale assegno di
mantenimento, il piano genitoriale e la mediazione familiare obbligatoria,
che rischiano di prolungare e rinforzare la conflittualità in una separazione
che già di per sé impoverisce qualunque coppia.
•
Presume che le donne accusino
falsamente il partner di violenza per avere benefici nelle cause civili di
separazione e divorzio; che le donne utilizzino i minori contro i padri; che il
genitore economicamente più debole (per lo più le madri) utilizzi il
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contributo economico al mantenimento del minore corrisposto dall’altro
genitore per finalità personali, introducendo il c.d. mantenimento diretto dei
minori, senza peraltro prevedere alcuno strumento volto a tutelare il nucleo
genitore/minore in caso di inadempimento dell’altro genitore. Nello stesso
senso, il DDL, fa un uso strumentale dei principi del preminente interesse del
minore e della bigenitorialità, con una retorica parificazione dei tempi di
frequentazione genitoriale, di impossibile concreta applicazione. È dato certo
che alcuni genitori, per esigenze lavorative e personali, stiano con i propri
figli un tempo minore rispetto a quello concordato e/o disposto dal Tribunale.
Così come avviene nelle coppie serene. Dunque, la norma non ha lo scopo di
implementare la relazione affettiva con i figli ma solo di esonerare un
genitore dal pagamento del contributo economico e di conservare il proprio
patrimonio immobiliare.
•
Introduce di fatto l’impossibilità per una gran parte delle donne, in
particolare per quelle con minori
opportunità e risorse economiche, di chiedere la separazione, a mettere fine a
relazioni violente e continuare in situazioni di rischio in nome di malintesi
diritti dei figli (che vengono così a loro volta messi a rischio)
•
Obbliga alla mediazione familiare, una pratica
sconsigliabile e, in presenza di violenza
domestica e familiare, e secondo le normative attuali, espressamente vietata dalla
Convenzione
di Istanbul ratificata
dall’Italia in Parlamento
all’Unanimità nel
2013.
•
Introduce l’alienazione parentale facendo
finta di non sapere che la teoria, nata dalla mente di un finto scienziato, non ha alcun fondamento scientifico
e legittima il valore della pedofilia e dello stupro familiare sui figli,
colpevolizzando le madri che tutelano i minori dalla violenza diretta e/o
assistita.
•
Ignora volutamente il persistente squilibrio di
potere e di accesso alle risorse delle donne,
proponendo un’equiparazione tra i genitori – doppio domicilio dei minori,
eliminazione dell’assegno di mantenimento, contributo all’affitto per il
coniuge non assegnatario della casa – che dà per scontate disponibilità
economiche molto spesso impossibili da garantire per le donne
•
Ignora volutamente gli elevatissimi tassi di
disoccupazione femminile e del gap salariale
tra uomini e donne, come il fatto che le madri continuano a essere espulse dal
mercato del lavoro per la carenza di servizi in grado di conciliare scelte
genitoriali e professionali, mentre sulle donne ricade quasi interamente il
lavoro di cura
•
Ignora volutamente che già ora, nelle separazioni
causate dalla violenza maschile, i figli
diventano per i padri oggetto di contesa e strumento per continuare ad
esercitare potere e controllo sulle madri.
•
Ignora volutamente il fatto che, prima ancora di
ricorrere alla giustizia penale, le donne
scelgono la separazione o il divorzio per sottrarsi a relazioni sbagliate o
violente
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e regolamentare l’affidamento dei figli, denunciando le violenze solo se
continuano anche dopo la richiesta di separazione.
•
Ignora volutamente che sia stata ampiamente
riconosciuta l’inefficacia dell’affidamento
congiunto e di altri percorsi prescrittivi e coatti nei casi di violenza
assistita da minori.
•
Ignora volutamente la pervasività e l’insistenza
della violenza maschile che determina un
gran numero di richieste di separazioni e genera le situazioni di maggiori
tensioni nell’affidamento dei figli.
•
Ignora volutamente che nei Tribunali le donne
incontrano difficoltà enormi nel denunciare
le violenze subite, che spesso non sono credute, che devono affrontare una
pesante ri-vittimizzazione da parte di un sistema giuridico e sociale che
ancora tende a spostare la responsabilità degli atti violenti sulla vittima del
reato piuttosto che sull’autore.
*
Per tutte
queste ragioni l’UDI-UNIONE DONNE IN ITALIA chiede a codesta Commissione che il
DDL a prima firma del Senatore Pillon venga ritirato. Esso è in contrasto con
le Convenzioni internazionali ratificate dallo Stato italiano e lede i diritti
fondamentali dei minori e delle donne che trovano fondamento nella Carta
Costituzionale per come interpretata dalla Corte Costituzionale e applicata
dalla Suprema Corte di Cassazione.
Unione Donne in Italia
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