domenica 16 ottobre 2022

IERI LUCANIA, OGGI BASILICATA

 -  Da  www.talentilucani.it  -

 

PUZZLE DI LUCANITÀ

Margherita Marzario

C’era una volta la Lucania che abbracciava un po’ della Campania, oggi rimane la Basilicata da ogni parte bistrattata ma dai “lucani dentro” sempre amata. La Lucania di ieri è stata cuore della cultura e della storia, dalla scuola metapontina di Pitagora ai grandi politici e intellettuali del primo Novecento (Emanuele Gianturco, Francesco Saverio Nitti, Giustino Fortunato, …). La Basilicata di oggi dovrebbe far pulsare di nuovo il suo cuore e far sentire la sua presenza con ardore. Basilicata, terra di santi e briganti, ma non si deve dimenticare il ruolo delle “brigantesse” – da alcuni spregiativamente chiamate o confuse con le “drude” (amanti o donnacce) -, che hanno rappresentato la tenacia delle donne lucane di tutti i tempi. Basilicata, terra di grandi donne (dalla poetessa Isabella Morra alla pittrice Maria Padula) e di leggendarie Madonne, dalla Madonna della Bruna di Matera alla Madonna del Monte di Salandra, da quella eterea di Picciano a quella scura di Viggiano. 

 

Basilicata, terra di dolci poeti e mesti profeti, di coltivatori e di scrittori. Quasi ogni paese lucano ha dato i natali a qualcuno che ha reso grande la microstoria e dato un contributo alla macrostoria.  Albino Pierro (di Tursi), l’unico poeta lucano tradotto in svedese e candidato sei volte al Premio Nobel per la letteratura, esprimendosi nel semplice dialetto ma con la grande forza del cuore lucano. Rocco Scotellaro (di Tricarico): il poeta lucano che tale Rimarrà Sempre, Rudezza e Saggezza, tipiche del vero lucano. Gli stati d’animo descritti nelle poesie di Scotellaro (“poeta contadino” con tanto di animo fino e cervello sopraffino) sono intensamente attuali, senza tempo come la vera lucanità, patrimonio tanto raro quanto caro. Tra le sue tante belle parole: “Ritorno al bugigattolo del mio paese, dove siamo gelosi l’un dell’altro: sarà la notte insonne dell’attesa delle casine imbianchite dall’alba. Eppure è una gabbia sospesa nel libero cielo la mia casa”. Il proprio paese è (o può sembrare) una gabbia da cui spiccare il volo sapendo che si può far ritorno perché ci sarà sempre la porta aperta. Basilicata, terra di bei paesaggi e buoni formaggi, dall’appenninico Vulture all’appetitoso pecorino di Filiano, accompagnato dal vino Aglianico e dal pane fragrante di chi lo fa ancora in casa. Terra di cave (da quelle rinomate del tufo di Matera a quelle della pietra di Gorgoglione in un entroterra tutto da esplorare) e di castelli, da quello di Bernalda a quello di Brindisi Montagna, riconoscibili da lontano. Basilicata, terra non solo di Matera, uno degli insediamenti umani più antichi del mondo, ma di tanti borghi e paesi con antiche origini. Tra questi, Salandra, il mio paese di nascita, dominato nei secoli passati dai nobili Revertera, arrivati sino a Miglionico. Cesare Pavese, parlando di “paese”, diceva che si tratta di persone, cose, pietre che ti aspettano. Il Convento e i calanchi di Salandra sono quelle cose immutabili che aspettano tutti i salandresi sparsi nel mondo. Il Convento col suo svettante campanile (da cui l’espressione locale “ialt quant u campanar”, “alto quanto il campanile”): uno degli immutati simboli di Salandra che dà l’impressione di non essere andati mai via dal paese. E, poi, ci sono i calanchi, uno degli aspetti spettacolari del paesaggio di Salandra (in particolare ammirandoli dal Muraglione) che noi salandresi non residenti siamo certi di ritrovare, quasi ad aspettarci. I calanchi: paesaggio lunare da ammirare e che, con la mente, a un glorioso passato ci fa andare (gli impavidi antichi Greci che risalivano dal fiume Cavone, chiamato Salandrella nel tratto salandrese). I calanchi ricordano i volti solcati dei lucani di una volta, quelli di “Lucania ‘61”, il “telero” con cui Carlo Levi ha raccontato con il pennello la vita nella Basilicata dimenticata. Salvaguardiamo questi nostri “paesaggi della biodiversità”, emblemi della lucanità. I calanchi sembrano mani di argilla che si affondano nella madre terra come i lucani che si sentono intimamente legati alla nativa terra. I calanchi non sono semplicemente solchi nella terra ma anche solchi nella memoria di chi, affascinato, l’inserra. “Teatro”, etimologicamente “la cosa cui si guarda”. Chi nasce o si forma in un paese, avendo la possibilità di giocare in una strada, di stare in vero contatto con la gente si porta la teatralità nel sangue. Come il grande Eduardo De Filippo che ha riproposto la scena del balcone in molte sue opere proprio perché così ha vissuto l’infanzia con i suoi fratelli. Il paese ti dà quel senso di domesticità e di specificità che la città non ha! Tornare al paese d’origine e provare una sensazione di vertigine: avere l’impressione di non essersene mai andata o di non esserci mai stata. Soggiornare nel paese natìo e renderti conto che c’è poco o nulla che possa dirsi “mio”. Il paese che ti ha dato i natali e ricordi speciali che solo per te sono tali, mentre agli occhi di coloro che non se ne sono mai allontanati sono normali, se non addirittura banali. E, in seguito, prendere coscienza della distinzione tra vivere in un posto e abitarci: vivere è condividere, abitare è meramente e mestamente stare! Il “paese dell’anima” non è solo quello in cui hai vissuto la prima volta inconsapevolmente certe sensazioni, ma anche quello in cui rivivi consapevolmente alcune sensazioni. “In un paese che ti appartiene non si può abitare, pensò. Puoi guardarlo dall’altra sponda e desiderare di tornarci, facendoti spingere da questo desiderio verso nuove terre, perché se il mondo è tondo, un giorno ci arriverai, anche se dovesse essere per sbaglio” (Mariolina Venezia, scrittrice nativa di Matera): così è il proprio paese nativo, così il proprio luogo dell’anima! “Qui sono nato, qui ritornerò” (il poeta lucano Michele Parrella) anche se la sepoltura non vi avrò: così è per chi porta in sé il profondo senso di paese descritto da Cesare Pavese! Paesani e lucani si nasce e si resta: soprattutto quando ci si allontana perché ci si rende conto della ricchezza dell’infanzia e adolescenza passate in luoghi che hanno attraversato tutte le fasi della storia. Tra lucani e Basilicata c’è un amore non sempre corrisposto. Noi lucani siamo “fili d’erba” (dal titolo di una poesia di Rocco Scotellaro), ma – per scarsa autostima – pensiamo sempre che l’erba del vicino sia più verde. Peccato che i “grandi” lucani siano stati o siano tuttora “ri-conosciuti” più altrove e non nella nostra regione (com’è stato per l’eclettico Gerardo Guerrieri). Questa ritrosia fa parte anche del nostro carattere lucano. Dovremmo sentirci più spesso “gente della Lucania” (da Leonardo Sinisgalli, ingegnere e scrittore come Leonardo da Vinci) e non semplicemente “lucani”, perché indica un senso di appartenenza di cui si sta perdendo la consistenza! Le lucciole (intese come insetti) possono essere una metafora dei lucani perché piccole, semplici, discrete, si rivelano a occhi attenti che le cercano nel buio della notte senza lampioni, in via di estinzione. Lucani, brava gente: si accontenta di niente trasformandolo in molto in modo sorprendente! “La sua vita è una fisarmonica. […] Un alternarsi di sistole e diastole, tra sconforto e speranza. Una fisarmonica che suona da anni la stessa musica e intanto nulla cambia e il tempo scorre” (l’artista Antonio Petrocelli, oriundo lucano): come la vita lucana! Il vero lucano si può identificare nella “inquieta capretta” (da Rocco Scotellaro) o parafrasando De Andrè si potrebbe dire: “All’ombra dell’ultimo sole s’è assopito lo zappatore, il vero e verace lucano”. Il lucano, bravo ascoltatore ed essenziale parlatore, ricco di pathos e passioni, come “[…] un uccello che canta una sola volta nella vita, più soavemente di ogni altra creatura al mondo. Da quando lascia il nido, cerca e cerca un grande rovo e non riposa finché non lo trova. Poi, cantando, tra i rami crudi, si precipita sulla spina più lunga e affilata. E, mentre muore con la spina nel petto, vince il tormento superando nel canto l’allodola e l’usignuolo. Una melodia suprema il cui scotto è la vita” (dal romanzo “Uccelli di rovo” di Collen McCullough). Le “stazioncine sul Basento” (dal giornalista e scrittore lucano Mario Trufelli) se prima erano desolanti perché han visto partire tanti lucani mai più tornati, oggi sono diventate una completa desolazione per l’abbandono e perché non vedono partire o tornare più nessuno. “Lo spirito del silenzio sta nei luoghi della mia dolorosa provincia” (dalla poesia “Lucania” di Leonardo Sinisgalli): la Basilicata è e rimane questo! C’era una volta la Lucania, oggi c’è la Basilicata e facciamo in modo che un domani ci siano ancora i lucani. Basilicata: una regione per gli altri da scoprire, per noi lucani da riscoprire! Evviva la lucanità, che limiti temporali e spaziali non ha e che agli altri tanto si dà e dà!

 

 

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