-Da "Il Dubbio" del 4 giugno 2019-
-Giulia Merlo
L’ultimatum di Conte a Di Maio e Salvini: «Smettetela o mi dimetto»
Il premier: «Basta liti, serve leale collaborazione.
Aspetto una risposta rapida». Secondo il capo del governo, i due leader
devono svestire i panni da campagna elettorale e vestire quelli da
ministri «Per tornare a lavorare per il bene del paese».
Per essere un ultimatum, manca solo il termine temporale. Il premier Giuseppe Conte prova così ad uscire dall’angolo della polemica politica in cui lo hanno segregato Lega e 5 Stelle: “o i toni si abbassano e torniamo ad essere il governo del cambiamento, oppure mi dimetto”, è la sostanza del suo discorso, in cui dice esplicitamente che «non mi presterò a vivacchiare per protrarre mia permanenza a palazzo Chigi».
Per essere un ultimatum, manca solo il termine temporale. Il premier Giuseppe Conte prova così ad uscire dall’angolo della polemica politica in cui lo hanno segregato Lega e 5 Stelle: “o i toni si abbassano e torniamo ad essere il governo del cambiamento, oppure mi dimetto”, è la sostanza del suo discorso, in cui dice esplicitamente che «non mi presterò a vivacchiare per protrarre mia permanenza a palazzo Chigi».
Per lanciare il suo messaggio alla maggioranza riottosa,
il presidente del consiglio ha utilizzato il mezzo inusuale della
conferenza stampa direttamente da Palazzo Chigi, sotto l’occhio attento
di Rocco Casalino. Il discorso inizia con un lungo elenco di
provvedimenti già approvati e continua con un altrettanto lungo elenco
di provvedimenti da attuare, in particolare la riforma della giustizia
penale, civile e tributaria e una organica riforma del sistema fiscale
(flat tax compresa).
Da queste premesse, Conte passa ad analizzare duramente
l’attuale situazione del governo, «oggettivamente conflittuale» :
«Dobbiamo uscire dalla logica dei proclami a mezzo stampa, per fare una
programmazione strategica lungimirante, che non si faccia determinare
dai like nell’agorà digitale». Il nodo che ha scatenato la
conflittualità è chiaro: il voto europeo, che ha ribaltato la
maggioranza politica nei paesi e di cui Conte dà la sua lettura. «Il
voto ha confermato la fiducia a questa esperienza di governo, ma ha
modificato la distribuzione delle sue forze: c’è stato un successo
significativo della Lega, mentre i 5 Stelle sono scesi», questo non
provoca ovviamente ricadute dirette in Parlamento, ma il rischio è
comunque alto: «La grande esaltazione dei vincitori e la delusione degli
sconfitti non ha ancora spento il clima elettorale.
Ma questa “supereccitazione” è un clima che non giova
all’azione di governo» . La linea- Conte è chiara: «Se continuiamo a
indugiare in polemiche a mezzo stampa e freddure su social, non possiamo
lavorare alla Fase 2 del governo». Di qui la domanda apertamente
riferita ad entrambi i vicepremier, con cui ribadisce gli ottimi
rapporti personali: «Chiedo a entrambe le forze politiche e ai loro
leader di operare una chiara scelta e di dirmi se hanno intenzione di
proseguire nello spirito del contratto stipulato», secondo il principio
di «leale collaborazione». Proprio su questo Conte addirittura si spende
in una lunga lista di esempi, troppo dettagliata per essere casuale:
«Leale collaborazione significa che non si cambiano le decisioni prese
in riunione; che se c’è ripensamento si chiede una nuova riunione; che
ciascun ministro si occupa della propria materia di competenza senza
invadere sfere che non gli competono (con velato riferimento a Salvini ndr); che le questioni politiche si affrontano rispettando la grammatica istituzionale e non lanciando segnali ambigui sui giornali».
Unico sassolino chiaro, se lo toglie proprio sul caso
della lettera a Bruxelles di Tria, in riferimento ai 5 Stelle: «Se io e
il ministro dell’Economia interloquiamo con le istituzioni europee per
evitare la procedura di infrazione, le due forze politiche non devono
intervenire per ridurre tutto con toni polemici». Parole dure quanto
chiare, che terminano con l’aut aut a Lega e 5 Stelle, a cui Conte non
chiede solo parole ma soprattutto fatti: «Se ci saranno comportamenti
non coerenti, con la trasparenza e nel rispetto delle procedure
dimetterò il mandato nelle mani del Presidente della Repubblica», e
ancora «chiedo una risposta chiara, inequivoca e rapida, perchè il Paese
non può attendere».
Ora la palla passa nel campo dei due partner: in quello
della Lega galvanizzata dall’esito del voto, di cui pure Conte ha
elencato tra le cose da fare i provvedimenti- chiave di decreto
Autonomie e flat tax; in quello dei 5 Stelle, di cui il premier intuisce
gli istinti elettorali per uscire dalla morsa leghista. Eppure, anche
solo dalla scelta lessicale, i venti che soffiano a Palazzo Chigi non
sembrano buoni: la minaccia del «non vivacchierò» ha un lungo passato in
bocca a molti premier – da Letta ad Andreotti-, diventati ex ( con
alterne vicende) ben presto dopo averla pronunciata.
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